Insomma il cinema italiano che ha formato generazioni su generazioni di sceneggiatori e registi, che ha fatto scuola e storia nelle migliori università, radio e tv, che è diventato paradigma sia di sorriso engagé gauchiste, sia di risata crassa di massa, non può più essere fatto e visto. Vi invitiamo del resto a raccogliere la provocazione mica tanto campata in aria di Beatrice&Mascheroni, anche solo andando a recuperare in modo autonomo, anche online, singolarmente i tasselli che i due montano in 36 minuti di significativo accostamento senza commenti extra diegetici o mezzucci retorici alla Michael Moore.
Ecco allora il catcalling di Carlo Verdone burino in Gallo Cedrone. “Anvedi che bel panettone quando lo scartiamo?”, urla il tamarro protagonista dalla decapottabile all’indirizzo di una avvenente passante. Nondimeno la violenza fisica reiterata e incarognita di Giancarlo Giannini su Mariangela Melato in Travolti… della Wertmuller; di Mastroianni sulla Vitti in Dramma della gelosia di Scola; di Sordi (ancora) sulla Vitti in Amore mio aiutami, che in un impulso di malata possessiva gelosia le fa colare sangue dal naso. Più sottile e metaforicamente anarchiche, ma altrettanto censurabili oggi, le sequenze de La Cagna di Marco Ferreri – non che il bistrattato Ferreri non venisse criticato all’epoca nei settanta/ottanta – quando Mastroianni barbuto usa la Deneuve come una cagna, appunto, lanciandole un bastone per farselo riportare e per verificare il grado di sudditanza perfino tirandolo in mezzo al mare.
Se poi vogliamo aprire il capitolo omofobo avanti pure. A partire nientemeno da Il sorpasso di Dino Risi con Gassman che spiega a Trintignant che il signor Occhio Fino è “una checca di campagna, ma non capisci? Fino Occhio!” o da quel Pozzetto comunista detto Il Gandhi che ne La patata bollente di Steno salva dai picchiatori fascisti l’omosessuale Massimo Ranieri e poi gli dice “non sono mica un culattone questa si sarebbe una disgrazia”. E se negli Stati Uniti Via col vento è diventato un casus belli di specifiche storiche necessarie da accompagnare alla visione, precisazioni e mezze cancellazioni, ecco Benigni dire in Non ci resta che piangere “No Cassius Clay non è indiano ma negro”, Albanese ne La fame e la sete “alegher, che il bus del cul è negher” o Thomas Milian in Delitto al ristorante cinese travestito da cinesino (e già qui…) giocare sullo stereotipo del cinese che fa diventare la R una L: “Via del calso” e Bombolo: “Via del cazzo?”. Guai a chi ride. Perché sicuro, oggi non lo vedreste più e semmai qualcuno lo vedesse dovrebbe chiedere scusa per l’impulso ridanciano, mentre commissioni “politicamente corrette” infliggerebbero bollini neri ai Zalone di turno (a proposito in Travolti… canta Gli Uomini Sessuali da Cado dalle nubi) infischiandosene della contestualizzazione storica e culturale, comunque, dell’epoca. Spiegano gli autori: “È giusto che un’opera d’arte sia sottoposta al giudizio dell’etica o peggio della morale? Non è che stiamo esagerando?”.
Aggiungiamo noi: giudicare e censurare a posteriori più che ridare giustizia alle presunte vittime non tende semmai a mistificare il senso oggettivo della storia dell’arte e, in questo caso, del cinema? In coda, una lunghissima coda, ci sono quasi tre minuti di preziosissima carrellata laterale di Giuseppe Bertolucci in Berlinguer ti voglio bene con Roberto Benigni ancora con la sua naturale dentatura anni settanta che impreca come una bestia ininterrottamente utilizzando qua e là espressioni sessiste devastanti come “troppi cazzi dentro il culo”, o usando tracce di anatomia femminile con una volgarità di certo non assimilabile agli attuali minuetti sull’amore in Dante. Che fare? Non lo proiettiamo più o lo copriamo con dei bip altissimi per non sentirlo?