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Presente e futuro di un’istituzione complessa nella riflessione di Andrea Prencipe
di Maurizio Ferraris
Andrea Prencipe è stato rettore dell’Università Luiss nel sessennio 2018-2024 e raccoglie in Università generativa, scritto in collaborazione con Francesco Maria Pirocchi e pubblicato dal Mulino, il succo della sua esperienza. Che si è esercitata all’interno di una università di ricerca che vuole ulteriormente svilupparsi appunto alla luce di una nuova produttività e inventività, per analogia con l’intelligenza artificiale generativa che sta riempiendo le nostre riflessioni nel corso degli ultimi anni. Se una macchina può (abusivamente) aspirare alla creatività, una istituzione composta da umani può, legittimamente, proporsi di innovare producendo sapere e competenze.
Sembra un obiettivo nobile ma ovvio, però non è così. L’università generativa è una netta inversione di tendenza rispetto alla università riproduttiva (o produttiva di diplomi) che si era creata alla fine del secolo scorso nel passaggio, involutivo e non evolutivo, dalla vecchia università di élite alla nuova università di massa. Catturavano questa involuzione le tre «i» che Silvio Berlusconi proponeva per l’università, del resto sintetizzando una opinione comune largamente diffusa: inglese, internet e impresa. Non nel senso che fossero sbagliate, perché è ovvio che questi tre elementi fanno parte (o devono far parte) del bagaglio di ogni persona colta; ma nel senso che non c’è bisogno di andare all’università per apprendere queste tre «i». E allora di cosa c’è bisogno? Cosa ci si aspetta dall’università? Anche Prencipe, nella seconda parte del suo libro, propone le sue tre «i», che sono però internazionalizzazione, interdisciplinarità, innovazione. Ripercorriamole confrontandole con le tre «i» della università riproduttiva non per criticare ancora una volta, e oltretutto dopo che non è più fra noi, Berlusconi, ma per confrontare due epoche dell’università, il passato e l’auspicabile futuro.
Internazionalizzazione e non (solo) inglese. Che cosa significa? Che all’università non si deve più studiare l’inglese? Certo che no. Tra l’altro, quello che ogni insegnante può rilevare ora è che le giovani generazioni, sia per la maggiore frequenza dei viaggi all’estero (con o senza la copertura dell’Erasmus), sia per il rapporto costante con uno strumento cosmopolitico, e con una forte predominanza dell’inglese, come il web, parlano inglese enormemente meglio dei loro fratelli maggiori, per non parlare poi di noi professori. Qui il rischio, semmai, ed è abbastanza concreto, riguarda la possibilità di dimenticare l’italiano, o più esattamente di parlarlo male, cosa che del resto mette l’Italia nella stessa condizione di altre nazioni europee, in cui le lingue locali si conservano, ma degradate, mal parlate e mal scritte. Questo lo svantaggio, non da poco ma ovviabile con un potenziamento dell’università; il vantaggio è però che oggi la ricerca è diventata incomparabilmente più internazionale di quanto non fosse all’epoca in cui ho iniziato l’università, gli anni Settanta del secolo scorso, e la tecnologia ha svolto, in questo ambito, un ruolo primario. L’inglese, in questa trasformazione, ha assunto il ruolo di lingua veicolare, che fa risparmiare tanto tempo e potenzia le possibilità di scambio, ma non di per sé, bensì appunto per via del tono internazionale che ha assunto la ricerca sia per un cambio di mentalità (si pensi all’influenza dei bandi competitivi a livello di Unione Europea) sia per la disponibilità di tecnologie della comunicazione che rendono l’internazionalizzazione economicamente accessibile non solo per l’Italia, ma anche per Paesi ancor più piccoli, marginali e poveri di risorse.
Le direzioni
Lo sviluppo si orienta su tre vie: innovazione, internazionalizzazione e interdisciplinarità
Interdisciplinarità e non (solo) internet. Fa sorridere, a proposito di tecnologie, pensare come eravamo venticinque anni fa: ci stupiva l’email, ci impressionava o incuriosiva il telefonino, quasi non c’erano motori di ricerca. Adesso abbiamo a che fare con i social che hanno pressoché soppiantato l’opinione pubblica e con l’Intelligenza artificiale che promette (e spesso mantiene) di sostituirci in compiti anche sofisticati. Ora, nel momento in cui ogni specialismo rischia di venire automatizzato, ciò che l’umanità (e l’università come sua rappresentante privilegiata nell’ambito del sapere), deve proporsi, è per l’appunto capire l’intreccio di conoscenze, interessi e forme di vita che caratterizza l’umano. In questo impasto di saperi, sentimenti e volontà spesso in conflitto tra loro, e che definiscono la natura umana, è evidente che una competenza monodisciplinare appare inadeguata. Senza dimenticare che tecnologia e umanesimo hanno cessato di costituire due orizzonti separati, consegnando al passato l’iper-specialista, tecnologo o umanista che sia. Questa, probabilmente, è la più grande acquisizione degli ultimi decenni, che è insieme la rivelazione di una essenza profonda della natura umana: quella di un organismo sistematicamente connesso con dei meccanismi; sicché quanto maggiore è la tecnologia, tanto maggiore è l’umanità, che si manifesta nei propri bisogni, nelle proprie qualità e nei propri difetti proprio attraverso la tecnica.
Innovazione e non (solo) impresa. Questo non significa in alcun modo che l’università debba abbattere i ponti con le imprese. Anzi, questi devono essere più solidi e più numerosi che mai. Tuttavia, il rapporto dell’università con l’impresa non deve essere quello, subalterno, di fornitori di semilavorati, i laureati, che saranno poi rifiniti dall’impresa e introdotti nel mondo del lavoro. Occorre invece che l’università intervenga nell’impresa appunto portando innovazione, il che è un bisogno particolarmente sentito in un Paese come l’Italia, con piccole e medie imprese che faticano a sviluppare autonomamente forme di ricerca e sviluppo. E devono dunque consorziarsi incontrandosi con le università, con il mutuo beneficio di problemi che trovano soluzioni concettuali o tecnologiche e di concetti o tecnologie che escono dai dipartimenti universitari ed entrano nel mondo. Già molte delle iniziative del Pnrr sono andate in questa direzione, e si sbaglierebbe a vederci una subalternità dell’università rispetto all’industria. È vero il contrario: è l’industria, il mondo del fare e della produzione, che ha bisogno di idee e di innovazione. Ed è certo che una simile esigenza sia una occasione da non perdere a nessun costo per una università che non voglia innovare soltanto nel cielo dei pensieri.