ROMA — La prima volta che è apparsa su un giornale italiano era il 7 ottobre del 2001 e il giornale, dice l’Osservatorio della lingua italiana, eraRepubblica . Sette anni più tardi, nel 2008, osteggiata, mal digerita, è entrata nel vocabolario Treccani come neologismo. Adesso, nel 2023, la stessa Treccani l’ha scelta come parola dell’anno. Femminicidio. “Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale”.
Un primato triste per una parola, che segna una scelta tutt’altro che neutra, bensì «unanime e determinata », spiega la professoressa Valeria Della Valle, direttrice, assieme a Giuseppe Patota, del vocabolario Treccani. A loro, tra più di 920mila lemmi, è stato chiesto di sceglierne per la prima volta uno che da solo racchiudesse un anno intero. E hanno scelto questo. «Ci è sembrata anzitutto una parola irrinunciabile, per colpa dei numerosi casi di femminicidio che si sono verificati in Italia e per gli ultimi, clamorosi, come quello di Giulia Cecchettin», racconta Della Valle. Nel 2023 è successo già 118 volte che a essere vittima di un omicidio fosse una donna, in 96 casi uccisa da un familiare o dal marito, dal compagno, dal partner, dall’ex. Numeri su cui è aperto il dibattito. Perché come scriveva Michela Murgia «la parola femminicidio non indica il sesso della morta. Indica il motivo per cui è stata uccisa, ci dice il perché».
Ma non è solo una scelta quantitativa quella di Treccani, che indica la ricorrenza o la frequenza d’uso, qui tragica, di un termine. «Femminicidio — aggiunge Della Valle — ci è sembrata anche una parola indispensabile e purtroppo utile: volevamo dare il nostro contributo, un contributo piccolo, linguistico, sperando che anche questo possa servire a riflettere su un crimine odioso, che possa coinvolgere tutti a prendere coscienza e consapevolezza di un fenomeno pressoché quotidiano».
Perché femminicidio, come dice il vocabolario, non è solo un episodio della cronaca.«Da direttrice e direttore, da linguisti — prosegue Della Valle — ci siamo posti il problema di analizzare il valore della parola femminicidio dal punto di vista socio- culturale. Purtroppo, nel 2023 la sua presenza si è fatta più rilevante, fino a configurarsi come una sorta di campanello d’allarme che segnala, sul piano linguistico, l’intensità della discriminazione di genere».
Ora, si direbbe, femminicidio è una parola mainstream che indigna solo chi, non sono pochi, ancora nega il fenomeno, ma ha avuto linguisticamente un percorso ancor più travagliato: «Non ha idea delle centinaia di lettere che ricevemmo quando la inserimmo per la prima volta tra i neologismi da parte di chi storceva il naso perché la riteneva una parola brutta. Dal punto di vista linguistico però esistono solo paroleformate correttamente o meno, non parole belle o brutte, brutto semmai è ciò che indicano».
Ed è stato proprio questo il discrimine: c’era l’urgenza — dicono dall’istituto dell’Enciclopedia italiana — di porre l’attenzione sul fenomeno della violenza di genere per stimolare la riflessione e promuovere un dibattito intorno a un tema che è prima di tutto culturale.«Una decisione importante, di forte valore», dice anche parte della politica, da Cecilia D’Elia (Pd) a Mara Carfagna (Azione). «Avremmo potuto optare per un termine positivo, avevamo pensato a “inclusione” — conclude Della Valle — Ma ci sembrava avesse senso scegliere invece una parola crudele, che ha effetto su chi la ascolta e chi la legge. I vocabolari non sono cimiteri di parole. Sono luoghi di ricerca e riflessione sulla lingua e sulla società. Il nostro lavoro è questo: stare dietro alla realtà e registrarne le parole, un servizio non solo linguistico ma anche sociale. E quest’anno era giusto fare così».