L’annuncio del premier Netanyahu: “Ma poi la guerra riprenderà”. Contro l’intesa i ministri della destra. Il pressing degli Usa Saranno liberati 50 prigionieri israeliani tra bambini e donne in cambio di 150 palestinesi e un cessate il fuoco di 4-5 giorni
Francesca Caferri
e Fabio Tonacci
GERUSALEMME — TEL AVIV — Un accordo fragile, lastricato di incognite, ma pur sempre un accordo. Con la mediazione del Qatar e la pressione americana, si è raggiunta un’intesa sul testo che detta le condizioni per il rilascio di 50 dei 236 ostaggi, da un mese e mezzo nelle mani di Hamas. Saranno liberati donne e bambini, non gli uomini, non certo i militari. In cambio, l’esercito israeliano concederà una tregua di quattro o cinque giorni: la prima da quando è cominciata l’invasione della Striscia di Gaza (sinora 14.128 morti tra cui più di 5.000 bambini, secondo il ministero della Salute controllato da Hamas). Lo Stato ebraico si impegna a scarcerare 150 donne e minori palestinesi, nessuno dei quali accusato di aver ucciso israeliani: il rapporto è di 1 ostaggio per ogni 3 detenuti, anni luce lontano da quel 1 a 1.027 che segnò nel 2011 la fine della prigionia del caporale Gilad Shalit. L’accordo non è un cessate il fuoco permanente. «I combattimenti riprenderanno come prima, siamo in guerra e vinceremo la guerra», mette in chiaro Benjamin Netanyahu.
Il testo è stato approvato dal Gabinetto di guerra e dal Gabinetto di sicurezza, poi è stato discusso dal governo fino a notte fonda. Quando questo giornale è andato in stampa la votazione non era conclusa, ma i ministri che prima della riunione si erano dichiarati a favore sono 32 a fronte di 6 contrari, tra cui i due dell’estrema destra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Serve comunque prudenza perché le condizioni poste sono tante e tali da poter saltare in ogni momento. Basta un missile durante la tregua o una sparatoria contro i soldati dell’Idf. Che accadrà, nel caso in cui Hezbollah dovesse lanciare una selva di razzi da Nord? La risposta israeliana varrebbe come la ripresa delle ostilità?
L’intesa, secondo le informazioni uscite sulla stampa israeliana, prevede il rilascio di 30 bambini, 8 madri e 12 donne anziane. Hamas non è riuscito a localizzare tutti i minorenni e le madri sequestrati il 7 ottobre, molti dei quali nelle mani di gruppi come la Jihad islamica. Si procederà a gruppi di 12-15 al giorno. Israele avrebbe ottenuto che il Comitato internazionale della Croce Rossa possa visitare chi rimarrà in ostaggio, portando medicinali, e ha ceduto su uno dei punti su cui la trattativa si era incagliata in precedenza: si è impegnato a non far volare i suoi droni durante la tregua, consentendo ad Hamas di far uscire in modo discreto i prigionieri dai nascondigli. Oggi sarà un giorno di attesa, durante il quale saranno compilate le liste dei detenuti palestinesi da scambiare.
In generale termini dell’accordo non sono molto diversi da quelli in discussione sin dai primi giorni del conflitto. Se si è arrivati all’intesa ora è perché ad essere cambiate sono le condizioni sul terreno. In particolare su tre punti: il primo è di tipo militare. Israele ritiene di aver raggiunto alcuni degli obiettivi di iniziooffensiva. La presa dell’ospedale al Shifa (ieri le forze speciali hanno aperto la porta blindata del tunnel trovato all’interno), ma anche la distruzione delle infrastrutture logistiche di Hamas. L’Idf sa che più si va avanti più l’offensiva si farà dura: per questo è pronto a uno stop. La pressione internazionale è il secondo punto: da giorni la Casa Bianca, anche per bocca del presidente Biden, auspica un accordo per il rilascio degli ostaggi e il governo israeliano non può continuare a opporre un rifiuto netto alle richieste degli alleati. Il terzo sono le famiglie: furiose, due giorni fa alcune di loro hanno lasciato l’incontro con Netanyahu prima del tempo, accusando il premier e i ministri alla sua destra di non avere la libertà dei loro caricome priorità. Che la spaccatura su questo punto all’interno dell’esecutivo ci fosse, era chiaro da settimane: ma negli ultimi giorni una serie di rivelazioni giornalistiche ha evidenziato la perplessità di Benny Gantz e Gadi Eisenkot — ex capi di Stato maggiore, per mesi pilastri dell’opposizione a Netanyahu, entrati nel governo di unità nazionale all’indomani del 7 ottobre — nei confronti della linea dell’espansione dell’operazione militare portata avanti dal ministro della Difesa Yoav Gallant. E spinto la rabbia delle famiglie a un nuovo livello. Ieri la rapita Hana Katzir, apparsa in un video due settimane fa, è stata dichiarata morta da Hamas: è la terza vittima accertata in pochi giorni fra i rapiti. Anche per questo il governo non può più ignorare la rabbia delle famiglie e delle decine di migliaia di persone scese in strada a loro supporto. Non solo: la liberazione della soldatessa Uri Magidish, avvenuta più di venti giorni fa, nelle fasi iniziali dell’offensiva di terra, è rimasta un caso isolato: segno portare fuori da Gaza senza un accordo le 236 persone che mancano all’appello non sarà facile.
Dal terreno arrivano notizie sempre più drammatiche sullo stato delle infrastrutture mediche: dopo le 12 vittime di due giorni fa all’ospedale Indonesiano, ieri un raid ha colpito il terzo e il quarto piano dell’ospedale di al Awda, uccidendo i dottori Mahmoud Abu Nujaila, Ahamd Al Sahar (entrambi di Medici senza Frontiere) e Ziad Al-Tatari.