Perché il premierato di Meloni può essere un antidoto al populismo
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13 Novembre 2023Il sistema politico italiano è un laboratorio senza precedenti nella storia delle democrazie occidentali, sottoposto a una serie continua di riforme del voto. Ciò non ha prodotto la fantomatica «stabilità» e ha aggravato la crisi della rappresentanza
Il 9 giugno del 1991 un referendum popolare cambiava per la prima volta (al netto dell’effimera vicenda della «Legge Truffa» del ’53) la legge elettorale per l’elezione della Camera, riducendo da tre a una il numero di preferenze che gli elettori potevano esprimere. Fu il primo atto di una serie di riforme elettorali il cui ritmo non ha eguali nella storia delle democrazie parlamentari: nel ’93 un altro referendum e il passaggio dal proporzionale al maggioritario, poi nel 2005 il famigerato «Porcellum» di Calderoli, nel 2015 l’«Italicum» bocciato dalla Corte Costituzionale prima ancora di essere usato, nel 2017 il «Rosatellum», oggi nuovamente in discussione. Senza contare, ovviamente, la ridda di riforme elettorali a livello comunale, provinciale, regionale ed europeo che ci ha accompagnato in questi decenni.
Sono passati trent’anni da quella prima crepa nell’architettura del sistema di rappresentanza della Prima Repubblica, e ancora non ne siamo usciti: continua a esserci il bisogno di cambiare la legge elettorale. Se trent’anni di riforme elettorali non hanno prodotto altro che il bisogno di nuove riforme elettorali, non sarà perché il problema è altrove? Ha ancora senso ossessionarsi nel tentativo di dare stabilità e alternanza a un sistema che non le riesce a ottenere a colpi di forzature dei meccanismi istituzionali? Non sarà arrivato il momento di prendere un po’ più seriamente la crisi di rappresentanza da cui non riusciamo a uscire? Le riforme elettorali non sono la causa della crisi politica in cui ci troviamo, che ha radici profonde e che non riguarda solo l’Italia; ma di sicuro non sono state la cura.
1991: la prima riforma
In principio, fu Mariotto Segni. Il leader del fronte referendario del 1991 era già quello che avrebbe trionfato nel 1993. Il democristiano sassarese guidava un fronte composito di politici, intellettuali e grandi industriali, e già mirava alla transizione tra il sistema proporzionale e il sistema maggioritario.
Ricordiamo la differenza: il sistema proporzionale, in vigore in Italia fino al 1992, e tuttora il sistema utilizzato nella stragrande maggioranza delle democrazie europee, prevede che ogni elettore scelga una lista di partito (con, eventualmente, l’espressione di una preferenza per uno o più candidati all’interno della lista) e che i seggi in parlamento vengano distribuiti proporzionalmente (da cui l’etichetta «proporzionale») alla percentuale di voti ottenuta da ogni partito. Il sistema maggioritario, invece, di tradizione anglosassone e oggi utilizzato nel Regno Unito, negli Stati Uniti e (in una particolare versione a doppio turno) in Francia, prevede collegi piccoli in cui ogni partito presenta un solo candidato, e viene eletto il candidato che prende anche solo un voto in più degli altri, dimostrandosi, appunto «maggioritario». In estrema sintesi: il proporzionale, nella sua forma più pura (al netto di metodo D’Hondt, sbarramenti, collegi ridotti e altre complicazioni), tende a produrre un parlamento che fotografa sostanzialmente la composizione politica della cittadinanza, attribuendo a ciascun partito il peso in termini di rappresentanza che effettivamente ha conquistato in termini di voti. In società complesse e articolate come quelle europee, raramente produce maggioranze assolute monocolore (anche se chiaramente è accaduto), e incentiva quindi il multipartitismo e la formazione di governi di coalizione. Il maggioritario, d’altra parte, tende a produrre un parlamento che non rispecchia per forza la composizione politica della cittadinanza (un partito territorialmente omogeneo può vincere gran parte dei seggi pur non avendo la maggioranza assoluta dei voti), preferendo un meccanismo di rappresentanza territoriale (l’eletto come rappresentante del collegio al governo nazionale) e incentivando il bipartitismo, favorendo la concentrazione dei consensi sulle due opzioni che hanno maggiori probabilità di vittoria in ogni collegio.
Il dibattito su proporzionale e maggioritario in Italia risale ai primi del Novecento, ha attraversato i lavori della Costituente, ed è riemerso più volte durante la Prima Repubblica. Ma è nella seconda metà degli anni Ottanta che si fa strada prepotentemente, come strumento per sbloccare il sistema bloccato della politica italiana, il cosiddetto «bipartitismo imperfetto» come l’ha definito lo storico Giorgio Galli, con l’eterna competizione tra Democrazia cristiana e Partito comunista e la prima destinata a prevalere sempre e comunque. La discussione stava dentro quadri generali diversi, dalla «Grande Riforma» proposta dal leader socialista Bettino Craxi all’idea della «riforma americana delle istituzioni» storico cavallo di battaglia del radicale Marco Pannella. Il cambiamento del sistema elettorale come scossa per sbloccare il sistema e riarticolarlo, facendo uscire l’Italia dalla palude del Pentapartito e creando le condizioni per l’alternanza. Un ragionamento non privo di fondamento, ma che dietro all’apparenza «tecnica» nasconde nodi politici di ben altro livello: la necessità di rendere più veloci ed efficienti le decisioni politiche nell’era neoliberista, di ridurre attriti e discussioni, per non parlare dell’integrazione di una nuova sinistra, non più comunista né generalmente alternativa al sistema dominante, nel campo delle forze che si possono legittimamente alternare al governo del suddetto sistema perché ne condividono i presupposti di fondo. Un orizzonte che affascina anche il neonato Partito Democratico della Sinistra, eretto da Achille Occhetto sulle ceneri del Pci, proprio nella prospettiva di competere, finalmente, per il governo.
In realtà il referendum del 1991, nato appunto come tentativo di sostituire il maggioritario al proporzionale, finì per concentrarsi su un aspetto assolutamente secondario: il numero di preferenze, ridotto tra tre a una, che ogni elettore poteva scrivere sulla scheda elettorale per indicare i candidati preferiti all’interno della lista del partito scelto. I quesiti sul maggioritario, infatti, furono bocciati dalla Corte Costituzionale e saranno poi accolti nel 1993 solo grazie a un escamotage del deputato radicale Peppino Calderisi, artista dei regolamenti e degli emendamenti. Ma il voto sulla preferenza unica fece comunque storia, per almeno due motivi.
Il primo fu il risultato: nonostante l’ambiguità della Democrazia Cristiana e l’aperta contrarietà del Partito Socialista, il cui leader Craxi invitò apertamente gli elettori ad «andare al mare» il 9 giugno, il referendum stravinse, con il 96% di Sì e il 63% di affluenza. Una rivolta popolare contro i partiti di governo. «Una valanga riformista contro la partitocrazia», secondo Segni. Il quotidiano La Stampa pubblicò in prima pagina un editoriale celebrativo dell’allora direttore Paolo Mieli intitolato «La società civile», che leggeva nel voto referendario una «presa di distanza da ogni forma di degenerazione della politica» e una «voglia di cambiamento in direzione di un sistema che quantomeno limiti la presa dei partiti sulla società».
Ed è tutto politico, infatti, il secondo elemento di rilevanza di quel passaggio: nel voto per la preferenza unica già si manifestava, come si nota dalla retorica utilizzata dai suoi sostenitori, l’utilizzo in senso antipartitico delle battaglie contro clientelismo, corruzione e criminalità organizzata. Le preferenze multiple, infatti, erano il simbolo delle peggiori degenerazioni dei partiti di governo della Prima Repubblica: le correnti democristiane e socialiste si combattevano a colpi di «triplette» (alleanze tra tre candidati, da votare in blocco) creando una matrioska di campagne elettorali una dentro l’altra, per non parlare della possibilità di utilizzare le preferenze multiple, giocando con le diverse combinazioni possibili di ordine tra i candidati scelti, per controllare il voto degli elettori, a fini clientelari quando non mafiosi.
La degenerazione dei partiti della Prima Repubblica, contrariamente a quanto certe nostalgie suggeriscano, non era una perfida invenzione neoliberista, ma un fatto storico innegabile. Non caso, nel fronte del Sì del 1991, c’erano anche gran parte della nascente Rifondazione Comunista e Il Manifesto, per non parlare di buona parte della sinistra sociale, a combattere contro le degenerazioni del sistema dei partiti e a difesa della qualità della democrazia. Ma il dato politico prevalente fu quello delle parole di Segni e dell’editoriale di Mieli: la battaglia «riformista» contro la «partitocrazia».
Mattarellum, Porcellum, Italicum, Rosatellum
Quella del 1991 fu infatti solo una prima crepa (peraltro, come si è visto, con ottime ragioni) nel sistema elettorale della Prima Repubblica. La spallata arrivò con il referendum del 1993, in cui Segni e i radicali riuscirono finalmente a far accettare alla Corte Costituzionale un quesito che trasformava in maggioritario il sistema elettorale del Senato. In piena Tangentopoli e a poche settimana dell’incriminazione del sette volte presidente del consiglio e senatore a vita Giulio Andreotti per concorso in associazione mafiosa, il clima di sdegno e rivolta verso i partiti di governo si riversa nelle urne: 83% di Sì con il 77% di affluenza. L’identificazione tra parlamentarismo e palude, tra coalizioni e immobilismo, tra partiti e corruzione è ormai pressoché assoluta nell’opinione pubblica. Il parlamento recepisce il segnale e approva in fretta e furia un sistema elettorale radicalmente nuovo, battezzato dal politologo Giovanni Sartori «Mattarellum», dal nome del relatore parlamentare, l’attuale Presidente della Repubblica, all’epoca parlamentare democristiano, Sergio Mattarella. Il nuovo sistema è in gran parte maggioritario: il 75% dei seggi di Camera e Senato viene assegnato al candidato più votato in ogni collegio uninominale, come nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Resta però una quota proporzionale del 25% che, in particolare, alla Camera, è eletta attraverso una scheda elettorale separata. Ciò significa che, contrariamente alle intenzioni referendarie, i partiti esistenti non si sciolgono tutti per fondersi in due grandi formazioni che si contendano il voto maggioritario, bensì continuano a esistere per presentarsi ognuno per conto proprio sulla scheda proporzionale, alleandosi invece per presentare candidati comuni su quella maggioritaria. Il risultato è la nascita delle entità politiche più tipicamente italiane della Seconda Repubblica: le coalizioni pre-elettorali.
Molti di noi non ci fanno caso, perché è l’Italia in cui siamo cresciuti: in politica esistono le coalizioni, esistono il «centrodestra» e il «centrosinistra», ogni partito deve decidere se fare o meno parte di una coalizione prima delle elezioni, e gli elettori si sentono prima di tutto legati a una coalizione e solo poi a un partito, tant’è che si è parlato per anni, e si continua a parlare, di «popolo del centrosinistra». Eppure non è così in nessun’altra democrazia europea. In tutta Europa, quando si va a votare, si vota per dei candidati e dei partiti. Il fatto che poi in parlamento eletti e partiti possano allearsi formando coalizioni è assolutamente normale, ma la logica delle coalizioni pre-elettorali, con tanto di simbolo (L’Ulivo e L’Unione nel centrosinistra, il Polo delle Libertà e la Casa delle Libertà nella destra) e leader comuni (Romano Prodi e Silvio Berlusconi), è un’eccezione tutta italiana, figlia del Mattarellum. Un maggioritario anomalo: da una parte, il Mattarellum sparge sale sulle macerie del sistema dei partiti della Prima Repubblica, già abbattuto da Tangentopoli, imponendo un sistema rigidamente bipolare che lascia poco spazio a chi non si allinea nei due grandi blocchi, e producendo alternanza al governo (destra nel ’94, centrosinistra nel ’96, destra nel 2001) e relativa stabilità degli esecutivi (il Berlusconi II, tra il 2001 e il 2005, è il più duraturo della storia repubblicana). Dall’altra, il numero dei partiti, invece di diminuire, aumenta a dismisura, e il potere di ricatto dei piccoli e piccolissimi gruppi, in particolare centristi, si moltiplica enormemente, in un contesto in cui basta un punto percentuale in alcuni collegi chiave a ribaltare l’esito di un’elezione.
La logica delle coalizioni pre-elettorali, in ogni caso, cambia profondamente la natura della politica italiana, non solo nelle scelte superficiali, ma nelle appartenenze profonde: gli elettori non sono più socialisti o liberali, comunisti o democristiani, ma «di centrodestra» o «di centrosinistra», quando non addirittura «berlusconiani» o «antiberlusconiani». La crisi dei partiti di massa e il tramonto delle ideologie novecentesche erano già in atto ben prima del referendum del ’93, ma il cambio di sistema elettorale accelera notevolmente i processi e struttura un nuovo sistema. I dati sulla volatilità elettorale, in questo senso, parlano chiaro: se prima del ’93 erano pochissimi gli elettori italiani che cambiavano partito tra un’elezione e la successiva, dopo quella data la volatilità tra partiti diventa notevole, ma solo all’interno della stessa coalizione. Identificazione e fedeltà si trasferiscono dal partito alla coalizione, quando non addirittura al suo leader.
Un meccanismo particolarmente tossico per la sinistra, che nelle sue componenti moderate (Pds e poi Ds) viene spinta dalla logica del sistema a competere sempre più al centro, incentivando e favorendo le spinte neoliberiste già esistenti; nelle sue componenti radicali (Rifondazione Comunista e le sue scissioni), invece, la sinistra si trova sottoposta a un continuo ricatto tra la scelta di partecipare al centrosinistra, compromettendosi con responsabilità e scelte che ne tradiscono idee ed elettorato, o correre da sola, riducendo sostanzialmente la propria rappresentanza parlamentare e contribuendo indirettamente alla vittoria della destra. La classica situazione lose-lose, che stritola lentamente ma inesorabilmente Rifondazione e i suoi epigoni, per decenni. A erodersi, nel tempo, è l’esistenza stessa della sinistra come soggetto autonomo con un proprio radicamento e una propria base elettorale: sempre di più, per gli elettori, la sinistra è una variante radicale all’interno del centrosinistra, da votare nel caso la si preferisca all’interno della coalizione, e da dimenticare se per caso ne esce, ma in ogni caso non considerandola un’opzione politica a sé stante, a prescindere dalle scelte elettorali.
Nel 2005 la maggioranza berlusconiana, in una forzatura senza precedenti dai tempi della Legge Truffa del ’53, cambia unilateralmente la legge elettorale, senza negoziarla con l’opposizione. Nasce il cosiddetto «Porcellum», così battezzato dopo che l’autore del testo, il leghista Roberto Calderoli, ammetterà che si tratta effettivamente di una «porcata». L’intento è chiaro quanto ardito: la destra al governo vuole poter valorizzare i simboli dei diversi partiti che la compongono, senza schiacciarli nella presentazione di candidati uninominali comuni, ma dall’altra parte vuole salvaguardare il bipolarismo e produrre maggioranze stabili. Il risultato è, appunto, una porcata. Ufficialmente si torna al proporzionale, ma l’impianto della legge, in realtà, è ben più maggioritario: alla distribuzione proporzionale dei seggi parlamentari, infatti, viene applicato come correttivo un premio di maggioranza che garantisce automaticamente una confortevole maggioranza assoluta di 340 deputati su 630 alla Camera alla coalizione più votata. Unico caso nella storia delle democrazie europee di sistema elettorale che produce sempre e comunque una maggioranza assoluta, quale che sia la scelta degli elettori. A complicare ulteriormente le cose, un arzigogolato sistema di sbarramenti interni ed esterni alle coalizioni (per incentivare i partiti piccoli ad allearsi a quelli grossi), e la scelta di attribuire al Senato 20 diversi premi di maggioranza su base regionale, con il rischio di produrre maggioranze diverse tra una camera e l’altra. Le elezioni del 2006 già mostrano i limiti del nuovo sistema, con coalizioni elettorali mostruose da undici partiti l’una, e il governo Prodi II costantemente minacciato da una risicatissima maggioranza al Senato: una legge ultramaggioritaria, costruita per garantire maggioranze assolute e stabilità, che non riesce a fare neanche quello. Dopo l’effimero tentativo quasi bipartitico del 2008, quando i neonati Partito Democratico e Popolo della Libertà si spartiscono il 70% dei voti, il Porcellum mostra la sua natura mostruosamente paradossale nel 2013, quando tre coalizioni (il centrosinistra di Bersani, la destra di Berlusconi e l’esordiente Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo) arrivano sostanzialmente appaiate, ma pochi punti percentuali di differenza danno al centrosinistra un’abnorme maggioranza assoluta alla Camera. Un parlamento ingovernabile, con due maggioranze diverse tra Camera e Senato, e un Partito Democratico che alla Camera, con il 25% dei voti, si trova ad avere il 46% dei seggi.
Nel dicembre 2013, dopo aver prodotto ben tre parlamenti, responsabili di decisioni politiche enormi e delle misure di austerità le cui conseguenze tuttora subiamo, il Porcellum viene dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, per l’assenza di una soglia minima necessaria per l’attribuzione del premio di maggioranza e per la presenza di lunghissime liste bloccate che impediscono agli elettori di scegliere davvero i propri rappresentanti. Il parlamento a maggioranza Pd, sotto il governo Renzi si mette quindi al lavoro per scrivere una nuova legge che corregga i tratti peggiori del Porcellum mantenendone però gli assi centrali: si vuole di nuovo una legge apparentemente proporzionale, in modo da poter presentare tutti i simboli dei partiti e massimizzare la capacità attrattiva delle coalizioni, ma in un quadro ultramaggioritario, che spinga verso il bipolarismo e produca sempre e comunque una maggioranza assoluta. Il meccanismo che viene escogitato in questo caso è una soglia minima del 40% per l’attribuzione del premio e, se ciò non si dovesse verificare, un ballottaggio nazionale tra le due coalizioni più votate. Un plebiscito a collegio unico nazionale che determina in un sol colpo la maggioranza parlamentare e, di fatto, il governo, è una cosa che fa pensare più alla Francia di Napoleone III che a una democrazia occidentale avanzata, ma la nuova legge, denominata pomposamente «Italicum», passa. Una frase risuona ossessivamente in quelle settimane: «La sera delle elezioni si deve sapere chi governerà». Una suggestione evidentemente figlia del cinema hollywoodiano dato che in nessun sistema parlamentare al mondo le elezioni garantiscono di sapere chi governerà, limitandosi a produrre un parlamento che poi a sua volta determinerà un governo. In tutta l’Europa continentale (salvo ovviamente l’eccezione presidenziale francese), i governi sono il risultato di lunghi negoziati post-elettorali tra i partiti. Le ultime elezioni federali tedesche si tennero il 24 settembre 2017, e il quarto governo guidato da Angela Merkel venne formato solo il 14 marzo 2018: quasi sei mesi dopo, altro che «la sera delle elezioni».
Come tanti altri prodotti della mirabolante stagione renziana, l’Italicum, approvato a maggio 2015, può vantare un record: l’unica riforma elettorale, tra le tante che abbiamo citato, a non essere mai messa in pratica. Nel febbraio del 2017, infatti, a un anno dalla fine della legislatura, la Corte Costituzionale bocciò il ballottaggio dell’Italicum, ribadendo un principio banale per la democrazia ma evidentemente di difficile comprensione per politici e opinion-leader: in democrazia, la maggioranza assoluta in parlamento non può essere un automatismo previsto dalla legge, ma dev’essere un esito determinato dagli elettori, seppure con una ragionevole approssimazione. La logica del maggioritario distorce sempre la volontà popolare, ma lo può fare solo fino a un certo punto.
Arriviamo così alla quarta riforma elettorale (solo ovviamente per quanto riguarda Camera e Senato) che ha seguito il referendum di trent’anni fa: nel 2017 arriva il «Rosatellum», dal suo ideatore, l’allora deputato democratico (oggi di Italia Viva) Ettore Rosato. Si tratta di una specie di «best of» di tutti i sistemi elettorali precedenti: è misto come il Mattarellum, ha la coalizione e la scheda unica come il Porcellum, si muove svicolando tra i paletti messi dalla Corte Costituzionale come l’Italicum, si spera con maggior successo. Il sistema, sperimentato per la prima volta nel 2018 e tuttora in vigore, prevede che il 37% dei seggi venga attribuito con il maggioritario e il 61% con il proporzionale (il restante 2% è riservato agli italiani all’estero). Si vota però su un’unica scheda, su cui sono riportati i simboli dei vari partiti, a fianco di ognuno dei quali sono scritti in piccolo i loro candidati per la quota proporzionale, mentre più in grande, riunendo più partiti, appare il nome dei candidati comuni di coalizione per la quota maggioritaria. Una legge estremamente complessa da comprendere non solo per gli elettori ma anche per i partiti, come dimostra il fatto che, almeno nei partiti piccoli, diversi parlamentari sono stati eletti in maniera inattesa, proprio in conseguenza alla difficoltà di determinare in quale collegio sarebbe scattato o meno l’eletto al raggiungimento di una determinata percentuale di voti. Ma, almeno per ora, non è risultata in contrasto con la Costituzione, ed è già una novità.
Alle elezioni del 2018, il Rosatellum ha prodotto una rappresentazione tutto sommato fedele delle scelte degli elettori, ma come hanno fatto notare diversi analisti, si è trattata di una fortuita coincidenza dovuta alla disomogeneità geografica del voto: la coalizione di maggioranza relativa, cioè la destra Berlusconi-Salvini-Meloni, infatti, ha fatto incetta di collegi uninominali solo al nord, mentre al sud sono andati in gran parte al M5S. Secondo le simulazioni di YouTrend, la prossima volta, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, potrebbe andare ben diversamente: la destra, pur avendo meno del 50% dei consensi anche nei sondaggi più favorevoli, sembra destinata a conquistare una confortevole maggioranza in entrambe le camere.
Il dottor Frankenstein in pensione
Anche assumendo lo sguardo più benevolo possibile e prendendo per buoni gli obiettivi di «stabilità» e «governabilità» assunti dai principali partiti in questi decenni (e sappiamo quanto siano invece profondamente radicati nella logica dominante della governance neoliberista e del capitalismo post-democratico), sembra difficile considerarli raggiunti. L’Italia era in crisi di rappresentanza nel 1991 e lo è ancora di più nel 2021. Il nostro sistema politico è stato sottoposto a un esperimento senza precedenti nella storia delle democrazie occidentali: una serie continua di riforme elettorali, tese a forzare dall’alto una transizione bipartitica, senza peraltro avere il coraggio di imporla fino in fondo, ma costruendo il cervellotico, disfunzionale e quasi unico al mondo meccanismo delle coalizioni pre-elettorali. Ciò che ne è uscito è la politica italiana della Seconda Repubblica, quella che abbiamo visto intorno a noi negli ultimi decenni: un ibrido senza forma, zoppicante e costantemente a rischio di perdere ogni equilibrio. Partiti effimeri che si fondono e si scindono ogni pochi mesi, coalizioni forzate che crollano dopo ogni elezione perché non le unisce alcun progetto che non sia impedire la vittoria dell’avversario, leadership potentissime che durano ormai pochi mesi per spegnersi subito dopo. La transizione iniziata nel 1991 non solo non si è mai conclusa: sembriamo più lontani di allora da una qualche ragionevole meta.
Le riforme elettorali hanno complicato incredibilmente una situazione già in partenza tutt’altro che facile da affrontare. Hanno cambiato surrettiziamente la Costituzione nei fatti non avendo mai la forza di toccarne la lettera: dire che «la sera stessa delle elezioni si deve sapere chi governerà» significa affermare una logica presidenziale. Quando il risultato elettorale produce automaticamente una maggioranza assoluta in parlamento, e i partiti sono stati obbligati dalla legge a coalizzarsi prima delle elezioni e a indicare un leader, informalmente ma pubblicamente candidato alla presidenza del consiglio, andare a votare per il parlamento significa di fatto eleggere il presidente del consiglio. Non a caso nei simboli elettorali della destra si è letto per decenni e si continua a leggere «Berlusconi presidente»: come se si stesse davvero votando per una carica monocratica. Con il risultato che quando poi c’è una crisi di governo e si seguono la lettera costituzionale e la prassi parlamentare, costruendo nuove maggioranze guidate da nuovi presidenti del consiglio, parti della politica e dell’opinione pubblica gridano al golpe e al tradimento del mandato popolare: hanno torto in punto di diritto, ma colgono un elemento politico reale. Forse sarebbe il caso di smettere di fare gli apprendisti stregoni e di prendere atto che questo bizzarro e crudele esperimento lungo trent’anni a cui il corpo politico del nostro paese è sottoposto è fallito, che il mostro è in agonia e che il dottor Frankenstein dovrebbe andare in pensione. Forse si potrebbe scegliere una legge elettorale normale, semplice, pulita, comprensibile, senza percentuali, quote e tripli sbarramenti carpiati con scappellamento a destra. Normalità democratica europea vorrebbe che fosse un proporzionale, in una delle tante versioni già sperimentate in Italia e altrove. Ma anche se si volesse seguire l’eccezione britannica, e preferire un maggioritario secco a turno unico, sarebbe probabilmente una scelta peggiore, ma comunque meglio di tutte le leggi che abbiamo avuto negli ultimi trent’anni, perché almeno darebbe un quadro chiaro, e relativamente stabile, in cui strutturare percorsi politici.
La crisi della rappresentanza è una crisi profonda. Affrontarla da sinistra, per chi crede che democrazia e socialismo siano inestricabilmente legati, passa per tante cose, come già discusso qualche mese fa in occasione del referendum costituzionale: servono organizzazioni collettive generali che rispondano alla crisi dei partiti di massa e all’insufficienza delle attivazioni locali e settoriali, organizzazioni unitarie, radicate in termini di classe e capaci di riflettere e ricomporre le mille appartenenze e le mille identità del mondo di oggi; va ricostruita un’efficacia materiale della democrazia, sgretolata dai vincoli europei, dalla globalizzazione, dalle privatizzazioni; e servono anche riforme istituzionali che restituiscano un orizzonte democratico progressivo, da nuovi strumenti di democrazia diretta alla democrazia interna ai partiti e alle comunità.
Mandiamo in pensione il Frankenstein che ha prodotto i mostri elettorali di questi trent’anni, restituiamo all’elezione del parlamento un minimo di dignità e di comprensibilità, permettiamo ai partiti di presentarsi, competere e contarsi, ognuno col proprio simbolo, senza che per forza tutti debbano avere la stessa ambizione a governare in ogni condizione e a ogni costo e senza che di ogni voto si debba pesare l’utilità prima in funzione della sconfitta dell’avversario più pericoloso che della costruzione di un’alternativa di fondo. Così, magari, avremo modo di affrontare i nodi della crisi della rappresentanza in modo un po’ più serio ed efficace di quanto sia stato fatto in questi trent’anni.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).