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15 Dicembre 2022Una lettura di Giovani e rivoluzionari. Un’autobiografia dentro l’arte degli anni Sessanta.
Nel 2011, a 75 anni, Nanda Vigo si trova in viaggio a Mosca e nelle vicinanze del teatro Bolshoi nota l’insegna di una fantomatica università del sesso orale, diretta da una certa Ekaterina Lyubimova. Il pensiero subito corre all’amico e maestro che non c’è più, l’artista Lucio Fontana, grande estimatore della fellatio. Lo scrive la stessa Nanda Vigo in Giovani e rivoluzionari. Un’autobiografia dentro l’arte degli anni Sessanta, testo uscito per la squisita Mimesis e curato dal critico e filosofo Carmelo Strano. Cerco il nome di Ekaterina Lyubimova e arriva la conferma: esiste. Trovo un paio di foto. È un donnone nordico con gli occhi azzurri, biondo e massiccio, che al tempo dell’URSS avrebbe potuto posare in tuta da operaio per un rotocalco sovietico, mentre nella Russia del “liberalismo sessuale di Putin” si occupa d’insegnare sesso orale a una classe di giovani allieve. Poche righe bastano a descrivere l’intera parabola di una società. Quello in cui compare il nome di Ekaterina Lyubimova è solo uno dei tanti episodi elencati nel libro dell’artista, architetta e designer Nanda Vigo, scomparsa nel 2020 all’età di 83 anni.
Pubblicato nel 2019, Giovani e rivoluzionari è un flusso colorato, effervescente, schietto e generoso di visioni e aneddoti. Per restituirci un’immagine di Dadamaino, amica e artista milanese, Vigo inventa questa immagine: “gioiello di sincerità, purezza e venature fosforettiliane”. Dove avrà trovato Nanda Vigo la parola composta “fosforettiliano”? Che cosa ci dice del suo mondo interiore, delle sue letture e delle sue passioni eccentriche? Che cosa ci dice della sua concezione dell’uomo, del tempo e della storia? A differenza di molti suoi contemporanei, evidentemente non aveva timore di lasciarsi affabulare da qualche stravagante teoria della storia e del complotto. Del resto Vigo credeva anche nella reincarnazione. Pensava che la nostra epoca si trovasse a un giro di eone, cioè al termine di 25.000 kalpa (ogni kalpa nella simbologia induista forma un ciclo cosmico) e che certi bambini geniali, in realtà, sarebbero solo dei vecchi, perché il loro genio non sarebbe altro che il prodotto di dati e informazioni accumulati nelle vite precedenti. Sfortunatamente nel libro non si parla di un regalo che Nanda Vigo fece nel 1971 all’architetto Gio Ponti, in occasione del suo ottantunesimo compleanno: una torta che aveva la forma di un’enorme e cremosa piramide egizia. Oggi il logo che compare sui bigliettini da visita dell’archivio Nanda Vigo riprende la sagoma dell’astronave Enterprise della serie tv Star Trek.
Leggere le memorie di Nanda Vigo è una gioia. Nella prefazione Carmelo Strano sottolinea “il fugace slang americano” che distingue la scrittura di Nanda Vigo. Ci sono giri di frase che sembrano presi da un baloon del fumetto anni Ottanta Il paninaro: “non avevo soldini per il round\round, e anche se lavoricchiavo in vari studi, si trattava solo di money per la sopravvivenza, e fui felice di scoprire il MacDonald’s”. Giovani e rivoluzionari si presenta come un diario, scritto tra il maggio e il settembre del 2014. L’oggetto del racconto non è il presente, ma il passato, anche se il tono di voce non cede mai alla nostalgia o al rimpianto. Gran parte dell’autobiografia è occupata dalla cronaca del rapporto sentimentale con l’artista Piero Manzoni, scomparso nel 1963 per infarto nel suo studio di Brera. Aveva appena ventinove anni. Il periodo successivo alla morte di Manzoni verrà chiamato dalla ex compagna A.D., cioè “After Death”. I due si conoscono grazie a un amico comune, l’artista cinese Hsiao Chin, con il quale Vigo condivide l’interesse per la fantascienza e l’esoterismo. Piero e Nanda si somigliano. Sono entrambi paffuti e fascinosi. Sembrano dei pasticcini. Nelle foto si può cogliere, tanto in Nanda che in Piero, un misto di allegria, dolcezza e spavalderia.
Manzoni non è certo un artista conservatore, tutt’altro. È un provocatore, un artista concettuale, ludico, un tipo che non sta mai fermo, un istintivo. Ogni mattina si sveglia con un’idea nuova. Per esempio vorrebbe dipingere di rosa il duomo di Milano. Eppure nella relazione con Nanda, Manzoni è un vero maschilista, con punte di moralismo sessuofobo. Non solo non vuole che lei lavori come artista, ma pretende che porti la gonna sotto il ginocchio, anche se Nanda afferma di essere stata una pioniera della minigonna, ben prima di Mary Quant. “La questione era che Piero non voleva assolutamente che io lavorassi”. Manzoni pretendeva perfino la chiusura dello studio che Nanda aveva in condivisione con un ingegnere e un architetto. Alla libertà di lavorare ed esprimersi Nanda Vigo non vuole in nessun modo rinunciare, perciò sottolinea la propria frustrazione, ma alla fine parla di Manzoni in forme sempre ironiche e affettuose. Lo chiama “il Piero” e “il Pierino”, come se fosse il personaggio di una striscia comica. È vero che Nanda Vigo, da milanese, piazza sempre l’articolo determinativo davanti al nome proprio, ma ogni volta che nomina “il Piero” si avverte un supplemento di affetto e indulgenza. Anche la scena di un doppio tentato suicidio è narrata con distacco e ironia. Nanda non coglie l’occasione per mettersi ad analizzare, a decostruire, a indicare le presunte strutture patriarcali implicite nelle richieste capricciose di Manzoni. Evidentemente non lo ritiene un punto di vista stimolante, ma soprattutto, leggendo, sembra di capire che ciò che a prima vista è un rapporto gerarchico, dove l’una è sottomessa all’altro, si rivela invece come una dialettica sentimentale, un gioco tra adulti in un tempo distante dal nostro, che non siamo autorizzati a giudicare e non possiamo più di tanto interpretare.
Chissà come accadde che nel remoto 1964 la locuzione ‘triggerare un’informazione’ entrò nella testa di Nanda Vigo.
Giovani e rivoluzionari è corredato da un intrigante apparato iconografico, che mostra un’ampia ed eterogenea cerchia di amicizie e frequentazioni. In una foto in bianco e nero Vigo è insieme a un giovanissimo Franco Battiato. È il periodo psichedelico degli album Fetus e Pollution, dove si trovavano brani come Una cellula e Ti sei mai chiesto quale funzione hai? Non è difficile immaginare che Vigo e Battiato abbiano avuto molto da dirsi. In uno scatto a colori Vigo è di fronte all’architetto e designer Alessandro Mendini, nel 1985, in occasione della mostra Luci e vermi. In un’altra foto ci sono lei e una star, Yoko Ono, mentre in una foto degli anni ’40, all’epoca in cui è ancora bambina, posa insieme ai genitori. Nel gruppo spunta anche un amico di famiglia, il pittore e scrittore Filippo De Pisis, che abbraccia scherzosamente la piccola Nanda, riempiendola di attenzioni. Un’altra sezione è dedicata alla collezione e riproduzione di una serie di documenti, compreso un manifesto artistico firmato da Nanda Vigo e risalente al gennaio 1964. È qui che l’occhio cade su un dettaglio abbacinante. Resto meravigliato. Alla sesta riga si trova quella che potrebbe essere una delle prime occorrenze in lingua italiana di un anglicismo diffuso sulla rete e usato dalla generazione Z: il verbo “triggerare”, che nel suo significato più proprio è traducibile come “innescare”, “attivare”, “far scattare”, ma in forma traslata indica un atto o una circostanza (un tweet o un post su Facebook) che provocano una forte reazione, spesso di rabbia, irritazione, collera. Definisce i meccanismi di reazione della psiche collettiva, simili alle velocità e alle dinamiche di causa ed effetto tipici delle macchine. Chissà come accadde che nel remoto 1964 la locuzione “triggerare un’informazione” entrò nella testa di Nanda Vigo. Forse grazie alla consultazione di qualche testo specialistico, magari di elettronica, dove veniva descritto il funzionamento di un circuito. O forse sfogliando un testo che trattava di cibernetica e teoria dell’informazione, i quali, come nel caso dell’elettronica, sono ambiti d’uso di “to trigger”. In ogni caso, il gesto compiuto da Nanda Vigo, affascinata da quel verbo e in generale dalle scienze, mi appare come un particolare atto di veggenza, avendo Nanda Vigo fermato sulla carta, con sessant’anni di anticipo, una delle espressioni più identificative della cultura e dello slang digitale di oggi.
All’inizio degli anni Sessanta un lavoro di Vigo viene esposto all’interno dello Spazio Ideal Standard di Hoepli. Si tratta di un Ambiente Cronotopico: “un labirinto di vetri e neon, con pavimento e soffitto riflettenti con effetti prospettici simulati […] il termine environment non era ancora arrivato in Italia”. Fra il 1965 e il 1968 collabora con il vecchio Giò Ponti alla progettazione di una casa in provincia di Vicenza. È la Casa sotto la foglia, proprietà del collezionista Giobatta Meneguzzo. Vigo ricopre l’intera superficie interna con piastrelle in ceramica bianca Gres, elimina le porte e inserisce delle pareti in vetro, che chiama “pareti cronotopiche”. Anche in questo caso troviamo la spia di un interesse per la scienza e l’altrove. In fisica, infatti, cronotopo è un concetto legato alla teoria della relatività. Indica lo stretto rapporto tra lo spazio e il tempo. Ma nel lavoro di Nanda Vigo il cronotopo non ha a che fare solo con lo spazio e il tempo, ma anche con il transito e l’immaterialità della luce. Il cronotopo definisce l’istante. È da bambina, a Como, passando di fronte alla Casa del Fascio progettata da Giuseppe Terragni, che Nanda comincia a vedere l’architettura come un congegno vibrante, fatto di luce, spazio e tempo. La visione dell’opera di Terragni accende e triggera la piccola Nanda Vigo. Così ha inizio il suo ininterrotto amore per la luce. Il semplice neon verticale di una piantana, disegnata da Vigo per Kartell nel 1960, ha lo stesso pulsante e netto candore delle spade laser di Star wars.
Finito il libro, apro YouTube e riguardo un video pubblicato nel 2019, un anno prima della morte. Si tratta di un’intervista video per il canale Nowness. Nanda si aggira per le stanze di casa aiutandosi con un bastone. È immersa in un ambiente caldo e misterioso. Specchi, neon, fasci di luce verde, rossa e blu. Seduta nella casa cronotopo, l’artista sfoglia i fumetti di Jeff Hawke e ricorda l’importanza delle letture giovanili di Flash Gordon, mentre alle sue spalle compare una collezione in VHS di film di fantascienza. La chioma bianca e riccia scintilla come fili di nylon. Dice che “gli artisti hanno fatto l’Europa prima dei politici” e che “la luce non ha una dimensione e si può viaggiare molto lontano”. Il suo inesauribile amore per la natura profonda della luce mi ricorda la passione per l’atomo del Dottor Manhattan, l’azzurro supereroe di Watchmen. Come una volta disse a Nanda il suo maestro, Lucio Fontana, “gli artisti non invecchiano mai”.