Il colpo d’occhio è sorprendente. Al centro della vasta rotonda della Bourse de Commerce, una sorta di carrousel accoglie un gruppo di opere emblematiche dell’Arte Povera, protagonista della grande mostra in corso alla Fondation Pinault di Parigi. Disposti direttamente sul pavimento, sono lavori che sfidano le coordinate tradizionali del quadro e della scultura, imponendosi con qualità di volta in volta diverse – una materialità scabra e potente, una straniata attitudine riflessiva, un’ironia spiazzante.
La nera “carboniera” di Jannis Kounellis (1967), dove la geometria razionale della lamiera di ferro si intreccia con il caos materico del carbone, si staglia così accanto al misterioso Spirato (1968-73) di Luciano Fabro, un corpo velato di marmo, privo della testa, che si configura come un metaforico antimonumento alla “vanità dell’ideologia”.
Più in là, l’autoironica silhouette di Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 (1969) di Alighiero Boetti, composta da grumi di cemento modellati a mano su cui si posa una farfalla, si specchia nello sconcertante rettangolo colorato di Piombo rosa (1968) di Pier Paolo Calzolari. Poco distante, Igloo con albero (1968) di Mario Merz unisce vetro e ferro in una forma insieme arcaica e utopica, rifugio primordiale e modello di un diverso modo di “abitare” il mondo, mentre l’Orchestra di stracci (1968) di Michelangelo Pistoletto, con i suoi bollitori accesi tra pile di stoffe multicolori, crea un’apertura multisensoriale. Al centro, Mimesi (1975-76) di Giulio Paolini ripropone nel doppio simulacro di Afrodite l’incessante rispecchiamento tra verità e finzione.
Anche limitandosi a questi pochi esempi, emerge con chiarezza tanto l’eterogeneità dei percorsi degli artisti “poveristi”, quanto il taglio curatoriale della mostra, che opta per una disposizione “orizzontale” – priva di intenti didascalici o di rigide scansioni temporali – ispirata al modello delle esposizioni di gruppo della fine degli anni 60.
La costellazione che Germano Celant aveva individuato nel 1967 rispondeva in effetti non tanto a un programma formale o ideologico quanto a un’esigenza condivisa di essenzialità e autenticità: un rifiuto della società del consumo, dei suoi “valori” e rituali, accompagnato dalla volontà di inscrivere nell’opera le tracce di un’apertura all’arcaico e al non artistico, così come una sensibilità agli archetipi antropologici e al mito, all’interazione tra “processi” mentali e azioni, tra immagini e linguaggio verbale. L’Arte Povera, si legge nel manifesto pubblicato da Celant nel 1967, si configura in effetti all’inizio come una pratica lontana da rigide categorizzazioni e da sistemi precostituiti: tende a «liberazioni formative e compositive, antisistematiche» in cui «l’uomo è il fulcro e il fuoco della ricerca».
La mostra «Arte Povera più azioni povere» agli Arsenali di Amalfi nell’ottobre 1968 resta in questo senso, come ricorda Gabriele Guercio nel suo saggio in catalogo, l’episodio centrale della vicenda poverista, con installazioni e “comportamenti” che danno vita a una mescolanza anarchica di materiali, immagini, corpi, pensieri.
La ricchezza di opere e documenti della mostra è però al tempo stesso un punto di forza e un limite, come si vede anche nelle “vetrine” dedicate a precursori e contemporanei dell’Arte Povera, interessanti ma alla fine generiche ed evasive. Il taglio onnivoro e la scelta della curatrice di rinunciare a ogni periodizzazione sono evidenti soprattutto nelle sale dedicate ai singoli artisti: accanto a selezioni ristrette ed efficaci, come ad esempio nei casi di Emilio Prini e Pino Pascali, altre risultano sovraccariche, dispersive, troppo spesso sbilanciate verso produzioni più recenti, senza che le trasformazioni nella maniera individuale degli artisti né i caratteri del loro “stile tardo” siano adeguatamente affrontati.
La sala di Giuseppe Penone, ad esempio, accanto a opere fondamentali della prima fase del suo percorso propone una serie di lavori più recenti, esteticamente raffinati quanto ridondanti. Analogo è il caso di Michelangelo Pistoletto, la cui produzione attuale appare stanca e appannata, e di Jannis Kounellis, la cui opera multiforme è presentata in modo insieme celebrativo e frammentario. Il limite di questa impostazione è particolarmente visibile nella sala di Alighiero Boetti, dove opere appartenenti a fasi diverse si trovano ammassate in uno spazio esiguo, con l’effetto di rendere l’insieme indecifrabile.
La volontà di privilegiare a ogni costo la “permanenza”, la stabilità delle divergenti poetiche poveriste, significa però tanto destoricizzare la vicenda del gruppo quanto offuscare l’opera dei singoli artisti, favorendo una lettura disimpegnata che trasforma pratiche un tempo di rottura in altrettanti tratti di “stile”, in manierismi ripetitivi e ipertrofici. Era un rischio forse inevitabile, vista l’ambizione di fornire del fenomeno Arte Povera una rilettura esaustiva. E tuttavia, nonostante la sua innegabile densità, la mostra non solo fallisce nel suo intento di ridiscutere il canone elaborato da Celant, ma di soffocare col suo “troppo pieno” le ragioni profonde delle scelte individuali e le qualità più essenziali delle opere, quel quid non assimilabile, refrattario a ogni storytelling, che va ogni volta ritrovato nell’incontro singolare, imprevedibile, tra epoca, spettatore e opera. Una potenzialità indispensabile, sempre più a rischio nell’assordante clamore dell’“evento” cui ogni mostra sembra oggi dover aspirare..
Arte povera
A cura di Carolyn
Christov-Bakargiev
Parigi, Fondation Pinault
Fino al 20 gennaio
Catalogo Éditions Dilecta,
pagg. 352, € 49