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Due volumi a cura di Alberto Fassone liberano il grande compositore austriaco dai troppi cliché per restituire la complessità dell’opera e della personalità Il bicentenario della nascita è passato un po’ inosservato in Italia, dove anche per questioni culturali i suoi lavori faticano ancora a entrare nei favori del pubblico
È passato piuttosto inosservato in Italia, dove l’anno musicale che si sta chiudendo è stato monopolizzato da Giacomo Puccini, ma il 2024 è stato anche il bicentenario della nascita di Anton Bruckner. Complici numerosi motivi che si annodano a vicenda – una generale carenza di cultura musicale entro cui si incista una altrettanto generale, e molto più storica, carenza di cultura strumentale e sinfonica – per quanto negli ultimi decenni si sia intensificata come presenza nelle sale da concerto, l’opera del compositore austriaco nel nostro Paese resta ancora un oggetto non di rado misterioso se non addirittura osservato con sospetto. Incutono timore le proporzioni immani delle sue sinfonie (si passa normalmente l’ora per sfiorare i 90 minuti con l’Ottava), faticando però intendere queste dimensioni monumentali come necessarie e pienamente corrispondenti, ad esempio, alla esplorazione dei limiti delle grandi forme narrative in letteratura, prima della polverizzazione novecentesca. Esattamente come i grandi romanzi dell’epoca, quella di Bruckner sono autentiche sinfonie- mondo, che richiedono (e richiesero allora) pazienza e dedizione. Ma a questo lo stesso Bruckner dovrebbe esserci abituato: oggi come in vita è un autore divisivo. Forse perché la musica di Bruckner ha in effetti una difficoltà oggettiva. Le sue partiture sono un corpo insospettabilmente modernista che si pone al di fuori di qualsiasi schema consolidato, nonostante si configuri coscientemente come telos, ossia come compimento, di una tradizione gloriosa – al pari, ma in modo radicalmente diverso, di Brahms, il quale non a caso era ideologicamente incapace di comprendere la musica del collega. Allo stesso tempo, sia per cercare di dare una spiegazione alla forza di una musica apparentemente opposta al carattere tanto devoto e mansueto quanto tormentato, sia per un vizio tipico della forma mentis ottocentesca che purtroppo gode ancora di immeritata fortuna, Bruckner molto più di altri autori dell’epoca si è trovato schiacciato su una serie di stereotipi biografici e caratteriali (non di rado più da parte amica che nemica) che ne hanno fatto una sorta di idiot savant, per di più bigotto. Nel meno peggiore dei casi è un sempliciotto maestro stiriano o il musikant Gottes, il “musicista di Dio”, ma ancora dieci anni fa un giornale come il Guardian riusciva a sommariare così la sua figura: “Non c’è dubbio che Anton Bruckner fosse un tipo strano, un uomo con un interesse malsano per i cadaveri e le ragazze adolescenti. Ma le ossessioni e i terrori del compositore ci hanno anche regalato della musica sorprendente”.
Gli strumenti per uscire da pregiudizi e luoghi comuni, e ritrovare così la complessità dell’autore, ci sono. Si potrebbe osservare che innanzitutto esistono le esecuzioni (per chi volesse cedere alla tentazione, online se ne trovano numerose e generalmente di ottimo livello: Bruckner non ammette musicisti mediocri): i grandi interpreti, abituati a pensare la musica dall’interno, non hanno bisogno della polvere dei cliché. E poi ci sono i libri. La LIM (Libreria Musical Italiana) in occasione del bicentenario ha portato sugli scaffali due volumi a firma di Alberto Fassone, studioso bruckneriano di livello europeo. Si tratta di una ristampa e di una nuova pubblicazione, da considerare come parti complementari di un più vasto affresco. La prima è Anton Bruckner. La personalità e l’opera (pagine XXI+525, euro 40,00), in cui il musicologo dedica capitoli a singoli problemi (il contesto socioculturale, la teoria e la prassi compositiva, la sfera religiosa, le versioni multiple delle sinfonie…) e quindi a una seconda parte di analisi sintetiche ma approfondite delle singole composizioni. Il volume è riproposto senza varianti alla prima edizione del 2005 ma è accompagnata da una nuova prefazione per aggiornare alcune questioni. La seconda è Anton Bruckner. Lettere 1852-1896 (pagine XXXI+377, euro 35,00), dove Fassone seleziona, traduce per la prima volta in italiano, e commenta 280 missive nelle quali il compositore figura come mittente, destinatario o oggetto. In nessuno dei due casi ci troviamo davanti a una biografia in senso classico: anche nel primo volume il profilo della vita è riassunto rapidamente per date e punti. Entrambi e congiuntamente, però, costruiscono un ritratto efficace di Anton Bruckner uomo e artista. È la soluzione che Fassone trova per uscire dalla trappola del biografismo, di cui il compositore è stato vittima ideale, che confonde l’aneddoto con la storia e che, peggio ancora, ne fa chiave ermeneutica dell’opera.
Bisogna dire subito che i volumi di Fassone, in particolare il primo, non rientrano nella categoria della divulgazione. Sono testi che richiedono non solo competenze musicali, musicologiche e di estetica ma anche una buona conoscenza storica. Bruckner è ricondotto alla stratificazione di milieu – religiosi, culturali, sociali – anche tra loro contrastanti che caratterizza l’Austria del secondo Ottocento, in cui le tensioni della modernità coabitano con la sopravvivenza di tradizioni barocche (si ricordi il legame fondamentale del musicista con l’abbazia di St. Florian). Fassone, sulla scorta di Dalhaus, rimarca proprio la centralità di un pensiero retorico-figurale di stampo sostanzialmente barocco nell’idioma sonoro di Bruckner. Un carattere che investe di una dimensione religiosa (nella quale Fassone individua una componente mistica) e unificante le sue partiture, tanto laiche, ossia le sinfonie, quanto sacre, dalle tre grandi Messe – assai meno eseguite nel nostro Paese delle pagine sinfoniche – al Te Deum oltre che al gruppo di mottetti. Se esiste d’altronde una autentica connessione tra biografia e opera, è proprio nella religiosità e in un «cattolicesimo interiorizzato, per molti aspetti intrinsecamente drammatico» ma «anti-illuministico», centrato «sul rapporto personale, irripetibile fra l’io del singolo e il creatore», e dunque privo di «tracce di sensibilità panteistica ». Fassone dedica a questa sfera alcuni capitoli e moltissime pagine, con il pregio di inquadrare tutti gli elementi in un momento cruciale per il cristianesimo e la Chiesa in Europa, anche dal punto di vista culturale, tra tensioni personalistiche post-romantiche, movimenti riformistici intraecclesiali, forme della secolarizzazione. Scopriamo un Bruckner sì devoto ma teologicamente informato, inserito nel dibattito ceciliano, avvertito dello slittamento del sacro dalla liturgia al concerto. Fassone ha anche il pregio di ricostruire con ampiezza un segmento importante della storia della musica sacra e liturgica, radicando la formazione bruckneriana nelle Messe di Haydn e Schubert (anche queste nel nostro Paese pagine pressoché mute) e mettendo a confronto la sua produzione matura – oltre che con l’inevitabilità della Missa Solemnis di Beethoven – in modo dialettico con il purismo e l’intransigenza ceciliani e in modo conflittuale con quella di Liszt, dalla esuberante Graner- Messe alle laconiche pagine corali finali, in cui si consuma quella aporia tra arte e culto a cui Bruckner seppe in vece trovare costantemente una moderna, personale e convincente soluzione.