Sordi o pressoché tali, assordati malinconici per la noia e il fastidio senza posa – solo apparentemente innocuo – del rumore generato da quello che il mio amico Jean Baudrillard immaginava velenoso frutto della vista e del vivere gli anni after the orgy, quel terreno della simulazione e del vuoto dopo il Vanishing Point of Art sostanziato dal grado Xerox della cultura imperante. Ora davvero si vive e si soffre in toni diversi quella premonizione convincendoci che in realtà non si trattava soltanto di una forzatura sociologica dai toni apocalittici, un gioco cinico per disadattati, un veleno distruttivo immerso nell’insolubile confusionismo postmoderno.
Niente paura però. Il torbido futuro prefigurato per il mondo dell’arte, quello che Arthur Danto aveva definito (e credo sarà ad infinitum) Artworld, ha generato potenti antidoti per tentare sia pure con fatica, come scriveva Mario Perniola, di rinnovarsi continuamente ricorrendo a tutta una serie di mode più o meno effimere, quelle su cui molti studiosi già dagli anni 60 avevano gettato luce, proprio come ha fatto Jean Gimpel, chiedendosi se ci si trovasse ormai in anni in cui si poteva decretare la fine dell’Arte come Valore Assoluto e quindi che senso avessero ancora Arte e Artisti. Il rumore di oggi che ci assorda è un autentico corpo di schegge pungenti e dolorose i cui capitoli, proprio come in uno strutturato teorema, vivono avvinghiati e si nutrono di nullità teoriche, rigurgito dei rimasugli delle defunte storiche avanguardie proprio come in un riciclaggio perenne della propria storia, nutrito dell’arbitrarietà del prezzo come valore, dell’onnipotenza mercantile, della profonda falsità dell’idea di arte come investimento, relegando l’arte e la sua influenza nel sociale ad una marginalità totale per cui (ancora Baudrillard) è «come se l’arte si costruisse le proprie pattumiere e cercasse la redenzione nei propri rifiuti». Atterrisce in fondo, schiacciata dell’assordante rumore, la scomparsa di ogni spiritualità, valore raro e perduto come la strada del silenzio, la sola condizione carica di una moltitudine di valenze che, come scrive Leopardi, «è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore, dell’ira, della meraviglia, del timore».
Per queste ragioni e per molte altre conviene precipitarsi a programmare il viaggio a Rovigo dove nel fastoso Palazzo Roverella sino al prossimo 29 giugno è ospitata l’imperdibile mostra, curata con intelligenza e competenza da Paolo Bolpagni, di Vilhelm Hammershøi e di quelli che vengono definiti i «pittori del silenzio» tra Nord Europa e l’Italia.
Tanto da dire su Hammershøi a cominciare forse dalla sua pressoché totale cancellazione dal panorama artistico internazionale, una scomparsa, un vuoto lungo come lo spazio tra il 1918 e il 1981, assenza totale e riscoperta sulla quale si presume, manco a dirlo, giochi oggi un ruolo potente la foga del mercato. È il più grande e il più noto artista danese che in vita (muore il 13 febbraio 1916) aveva riscosso un vasto successo europeo, capace di influenzare artisti a lui coevi e della generazione successiva come chiaramente sa mettere in luce l’esposizione di Rovigo, una mostra che pone al centro, con attitudini diverse, il tema del silenzio e che Bolpagni indica come «declinazione del sentimento sfuggente ed enigmatico, sottilmente angoscioso» che trapela anche nelle opere di artisti italiani che ad Hammershøi faranno chiaro riferimento. Giannino Marchig, Umberto Prencipe, Giuseppe Ar e soprattutto Oscar Ghiglia.
Senza tema di andar lontano si può dire che il turbine creativo generato dal veloce susseguirsi delle storiche avanguardie in azione dai primi anni del Novecento avevano con violenza posto in ombra ricerche poco o niente classificabili proprio come quelle del pittore danese.
Né modernista né antimodernista, un artista non schiavo e vittima di roboanti manifesti o di teorie politico-ideologiche, lontano da gruppi stretti da credenze vincolanti. Hammershøi ha potuto lentamente riemergere solo negli anni 80 del Novecento con una grande retrospettiva a Charlottenlund e poi una sorta di riscoperta da parte del compianto critico statunitense Kirk Varnedoe che lo vuole nella serie di mostre a Washington, New York e Minneapolis nella rassegna «Northern Light: Realism and Symbolism in Scandinavian Painting 1880-1910». Oggi le mostre si susseguono senza tregua nei maggiori musei internazionali e portano con sé l’ansia generata da un clima fortemente introspettivo e mistico, sorta di raffinata speculazione intellettuale, quasi il desiderio latente di poter conferire alle opere la capacità di trasmutare il fisico in metafisico.
Sono interni domestici saturi di un trattenuto fascino simbolico, atmosfere scarne cariche di sospensione e di attesa quasi sempre composte con maniacale rigore geometrizzante, astrazioni e assenza di presenze umane luoghi che meglio di chiunque ha saputo indagare il filosofo ungherese László Földényi nel suo libro I luoghi della morte vivente, il cui saggio indaga i luoghi della malinconia più profonda, spazi in cui tutto è immobile, muto, in cui la vita e la sua assenza non si escludono ma si fondono, dove la vita è mortale e la morte vivente.
Come gli oggetti nelle opere di De Chirico che «compaiono quasi non fossero mai stati visti da essere umani», quelli in cui Max Ernst vede «un intero ambito del nostro mondo dei sogni che non siamo capaci di vedere e di intendere». Nelle opere di Hammershøi incontriamo fissità, solitudine, malinconia, immobilismo, la stessa impostazione concettuale alla base di tutte le esperienze teoriche, quanto utopistiche che, con le differenze dovute, percorrono il tema degli spazi delle città ideali, quasi sempre luoghi di alienazione e disperazione.
È proprio il silenzio, padrone delle opere di Hammershøi, a condurci in un viaggio introspettivo nutrito di abbandono, vaghezza d’animo, rapporti anima-corpo, spirito-materia dove sempre riverbera una forza creatrice, quella che Marsilio Ficino aveva definito malinconia generosa capace di dare sostanza e vita, opere e pensieri, quasi senza tempo.
Hammershøi dà l’idea di non sapere e potersi esprimere se non come corpo solitario e separato anche se ci piace pensare che anch’egli abbia deciso, proprio come Vincent in anni vicini, e lo scrive al fratello Theo, di vivere «…la via della malinconia attiva … e preferito la malinconia che spera, che aspira e cerca a quella che cupa e stagnante dispera».