LE MEDIAZIONI NON CANCELLANO LE TENSIONI NEL GOVERNO
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18 Luglio 2023Matteo Garavoglia, TUNISI
Seicento. Sono le persone che a oggi si trovano ancora nella zona militarizzata al confine con la Libia, una striscia desertica senza acqua, cibo e di fatto inaccessibile. «Ci sono persone che stanno morendo, bambini e donne incinte. Abbiamo bisogno di aiuto», si sente in uno degli audio ricevuti dal progetto Mem.Med -Memoria Mediterranea e che il manifesto ha potuto verificare. Ci sono altri due video che mostrano le forze di sicurezza tunisine allontanare dalla frontiera le persone bloccate in quella terra di nessuno con gas lacrimogeni e diverse foto, tra cui una persona che tiene in braccio un bambino di neanche un anno.
DA INIZIO LUGLIO le autorità locali hanno deportato lungo il confine libico e algerino almeno 1200 persone. A oggi i morti accertati sono 15 ma dalle ultime ricostruzioni i numeri nelle prossime settimane potrebbero aumentare sensibilmente. Il punto di partenza è Sfax, a più di 300 chilometri di distanza e città dove si sente maggiormente la presenza della comunità subsahariana.
Qui da più di due settimane si registrano violenze di ogni tipo contro cittadini originari dell’Africa occidentale e del Sudan. Nel frattempo, mentre le storie si intrecciano e si accumulano i casi di chi ha perso tutto e si ritrova a vivere per strada o in mezzo alla campagna. Domenica 15 luglio la commissaria dell’Unione europea Ursula von der Leyen, accompagnata dalla premier Giorgia Meloni e dal primo ministro olandese (ormai dimissionario) Mark Rutte, ha chiuso un cerchio che dalla sponda nord del Mediterraneo era atteso da più di un mese.
In una cerimonia chiusa ai giornalisti della stampa estera e tunisina, non c’è stato alcun riferimento alle condizioni delle persone subsahariane e sudanesi vittime di violenze a Sfax e abbandonate nel deserto. Le uniche parole sono arrivate da Saied stesso: «Il popolo tunisino ha mostrato una generosità illimitata nei confronti di questi migranti espulsi dai propri paesi, mentre molte Ong che dovrebbero assumere il loro ruolo umanitario hanno agito solo attraverso comunicati stampa.
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Meloni-Ue-Saied: un accordo nel disprezzo dei diritti umaniPossono proteggere queste vittime dalla fame e dalla sete? Per non parlare delle manovre di diffamazione e fake news con l’obiettivo di danneggiare la Tunisia e il suo popolo». Frasi che tuttavia non fanno capire chi è il responsabile di quelle deportazioni nel deserto, ossia lo Stato tunisino. Inoltre, il ministero dell’Interno del governo di unità nazionale della Libia, un paese conosciuto per essere governato da milizie e dove gli abusi nei centri di detenzione avvengono su base quotidiana, ha diffuso un video che documenta il salvataggio di alcune persone provenienti dalla frontiera tunisina.
BASATO su cinque pilastri, la gestione dei flussi migratori rimane l’urgenza più evidente e l’obiettivo principale del memorandum al momento è solo uno: vedere calare i numeri degli arrivi lungo la sponda nord del Mediterraneo. Il resto degli investimenti, tra cui il capitolo delle energie rinnovabili, può attendere. Un dettaglio che non è passato inosservato da parte della società civile tunisina, impegnata da qualche mese a dimostrare che la Tunisia non può essere considerata un paese sicuro per i rimpatri dei suoi cittadini e per i migranti. «In un contesto non democratico, caratterizzato dall’assenza di dibattito e censura dell’informazione, la Tunisia ha firmato un memorandum. Questo permette al nostro paese di giocare il ruolo di guardiano, di diventare una fortezza per contenere i non desiderati delle politiche europee in materia d’immigrazione», sono le parole del portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) che sintetizzano le preoccupazioni di una società civile che si sente sempre più accerchiata dalle mosse presidenziali.
Un logoramento delle condizioni interne del paese che si manifesta violentemente anche nel mancato accesso alle zone dove la violenza è più presente. A Sfax migliaia di persone continuano a riempire le strade della città, in particolar modo a Bab Jebli, in pieno centro. «Stavo camminando semplicemente per strada quando un gruppo di tunisini mi ha aggredito da dietro. Guarda le ferite – raccontava qualche giorno fa un richiedente asilo sudanese di poco più di 20 anni, scappato dalla guerra civile scoppiata nel suo paese – mi hanno colpito in testa e rotto un labbro. Un operatore dell’Unhcr mi ha accompagnato in ospedale ma poi mi ha lasciato lì. Ora devo ritrovare i miei amici».
MENTRE si registrano casi di migliaia di persone che hanno trovato rifugio nella campagna fuori da Sfax per scappare dalle aggressioni della polizia, l’impressione che resta è una: si stanno perdendo le storie delle persone vittime di violenze, sostituite da freddi numeri. A oggi le persone abbandonate nel deserto da inizio luglio sono più di 1200, 600 quelle che sono riuscite a rientrare.