L’italiano, linguaccia oscena e turpiloquente
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Lo diceva Pasolini, «noi siamo quelli che hanno visto il mare», e quelli come me, poco più giovani di lui, nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta con il boom economico, ci siamo cresciuti al mare, noi che avevamo i piedi pizzicati dalle tracine di Torvajanica, di Ostia, di Fregene, noi che avevamo il mare vicino a Roma, quel mare trasparente che abbiamo visto solo noi, perché oggi i nostri figli, i nostri nipoti per vedere il mare, quello bello, che noi avevamo ad un passo da casa, devono andare in giro per il mondo, fare venti ore di volo, fino alle Maldive e trovare quei pesci meravigliosi che noi non abbiamo mai visto, perché avevamo le tracine, gli scorfani, le sardine, il pesce azzurro, le telline, le meduse grandi come torte nuziali che si spiaggiavano sulla battigia bianche e trasparenti e le infilzavamo come spiedini con i remi dei canotti, anche se erano innocue; questi pesci, anche se non c’era la barriera corallina, erano stupendi perché erano i nostri.
Biglie e vulcani
Ho ancora nella mente il profumo di salsedine dei tre mesi di vacanza al mare, i nostri genitori, ci mollavano sulla battigia, che trasformavamo in cittadelle di piste per le biglie, con curve paraboliche solcate dal sedere dell’amichetto di turno trascinato per i piedi, i castelli diroccati dal passaggio distratto dei bagnanti e al tramonto, i vulcani di sabbia che non si accendevano mai; avevamo sempre un gran da fare sotto al sol leone e poi, di notte, le mani di mia madre che mi spalma sulla schiena paonazza quel miracoloso e soprattutto gelido unguento di bianco d’uovo e olio d’oliva.
Il bagnino abbronzatissimo, con la catena d’oro al collo, orgoglioso, mani sui fianchi, accanto al suo pattino rosso fiammante e le Kodak instamatic, con il rullino che non sviluppavi mai, ti rimaneva nel cassetto per tutta l’estate e, a volte, anche tutto l’inverno, finché un giorno non lo ritrovavi per caso, lo facevi sviluppare dal fotografo e riaffioravano i ricordi di una vita e mezza fa. Poi i panini che si riempivano di sabbia, il cocco fresco, il ghiacciolo arcobaleno, lo jo jo, le battaglie di bombe d’acqua, i primi baci dietro alle cabine e quel senso di libertà che i nostri figli, e ancor di più i nostri nipoti, non hanno mai vissuto perché, i ragazzi, oggi, di libertà ne hanno fin troppa e bisogna tenerli al guinzaglio perché c’è il bullismo, c’è la droga e ci sono “gli uomini cattivi che ti portano via”. L’estate sembrava non finire mai, eppure gli amichetti più cari e le fidanzatine li conoscevi sempre troppo tardi, l’ultimo giorno, che avevi già le valige pronte per tornare a casa.
Meglio di Venezia
Per me l’estate era papà, l’inverno era mamma, la scuola a Milano, poi in Inghilterra. Ma a giugno, mi dirigevo a Torvajanica, in quel posto magico, di fianco alla pineta della tenuta presidenziale dove è nato il Villaggio Tognazzi. Non perché quel luogo fosse di papà ma perché Ugo che, a quel posto, aveva letteralmente dato i natali. Lì, la famiglia si è allargata, è nato prima Gian Marco, poi Maria Sole, poi è arrivato il biondo Thomas dalla Norvegia, che aveva già otto anni, non sapevamo che fosse nostro fratello ma lo è diventato presto, nel modo più naturale possibile. Durante l’estate sbocciava una vita diversa, prendeva forma un’altra quotidianità basata sull’amore di una famiglia aperta, priva di pregiudizi.
La mia estate, era anche il torneo di tennis, il mitico “Scolapasta d’oro” che era la risposta ironica e godereccia di Ugo alla banale e frugale “Insalatiera d’argento” della coppa Davis; perché il torneo, il tennis, erano il pretesto per aggregare gli amici, i colleghi, gli attori, i registi… quasi tutti delle gran pippe a tennis ma era lo stesso, perché era sempre festa e la gente veniva soprattutto per mangiare i mitici spaghetti di papà, conoscere gente e ridere insieme; Michele Placido disse che era più facile trovare lavoro allo “Scolapasta d’oro” che al festival di Venezia, perché lì, a casa di papà, c’erano proprio tutti: Monicelli, Gassman, Salce, Pontecorvo, Pavarotti, Diletta D’Andrea, le gemelle Kessler; una volta vennero anche i Rolling Stones, che non giocarono a tennis e non mangiarono nemmeno gli spaghetti ma si fecero una canna in giardino.
Il colpo di scena
Franca, organizzava tutto insieme a papà, Nazarena e Carmen, le sue due assistenti ciociare che lo aiutavano a fare queste enormi padellate di sughi, di cozze, di pesci innaffiati dal vino Velletrano che faceva lui, nel suo adorato vigneto. Sì, perché papà era bucolico, ma amava soprattutto le sorprese, i colpi di scena; alle premiazioni del torneo, arrivavano elefanti, ballerine, giocolieri, Philippe Leroy faceva il mangia fuoco, Anthony Quinn si esibiva con la sua frusta messicana, che una volta, per poco, non acceca Ugo, per spegnergli la sigaretta che aveva in bocca, e poi quella volta che chiamò quelli degli effetti speciali e fece nevicare ad Agosto. Era veramente un’estate che più di così non potrei immaginare. Venticinque anni è durato quel delirio, poi papà se n’è andato ed è calato il sipario.
Quest’anno che ricorre il suo centenario, celebriamo lui e la nostra estate con uno schermo sulla spiaggia dove proietteremo i film di Ugo, uno schermo in piazza con le commedie italiane più divertenti dell’anno e poi un torneo di padel. Una volta si giocava a tennis ed ora si gioca a padel, cambia il nome, è vero, ma il gioco più o meno è lo stesso: ci sono le racchette, che assomigliano a delle padelle e il mitico trofeo “Scolapasta d’oro” si è trasformato ne “La padella d’oro”, l’occasione per giocare di nuovo tutti insieme.