di Rosella Postorino
Non ci sono tante foto di te da bambina. Ne ho in mente due o tre che ti ritraggono alle soglie della pubertà: sorridi abbracciando tua madre.
Nelle foto dove hai quattro anni invece sembri triste. Tuo padre è ancora vivo; minuscola accanto a lui, non sai che presto morirà, che tua madre rimarrà vedova con tre figli, te e i tuoi fratelli: Pierre il cattivo e Paul il buono. Chissà se era davvero così, se non è stata la tua percezione a travisare – uno scarto della memoria, o della letteratura. L’archetipo di Caino e Abele (hai sempre temuto che Pierre uccidesse Paul, hai scritto che era successo, anche se Paul è morto di broncopolmonite) proiettato nelle figure maschili con cui sei cresciuta. I ragazzi assieme ai quali facevi il bagno nel fiume o andavi nella foresta a uccidere bestie, nei primi anni del secolo scorso in Indocina. I ragazzi assieme ai quali hai scoperto il desiderio – quello incestuoso. Per te, scandalosamente, il più puro.
Perché non sorridevi, Marguerite?
Sempre mi hanno incuriosita gli scrittori da piccoli, colti nell’epoca dell’ignoranza: non sanno che un giorno diventeranno scrittori, magari tradotti e studiati ovunque, come te. Non sanno quanto dolore li aspetti. Al tempo della foto tutto doveva ancora accadere: la malattia di tuo padre, la decisione di tua madre di investire i risparmi di vent’anni in una concessione, e la terra che si rivela incoltivabile, ciclicamente inondata dal Pacifico. Tua madre che fa costruire una diga per arginare l’oceano, la diga che crolla, tua madre che crolla, l’inizio della follia.
Sempre mi hanno incuriosita gli scrittori da piccoli, immersi nell’incubatoio della propria scrittura, appena colpiti dal trauma – il varco da cui scaturiranno personaggi e storie. Gli scrittori sopraffatti, come te, dalla violenza di una madre che la società ha umiliato, dalla crudeltà innocente di una natura che devasta terre, dalla crudeltà colpevole degli esseri umani. Gli scrittori sorpresi nell’esatto istante in cui condanna e benedizione si toccano: la cognizione del dolore al suo principio è anche il principio della scrittura.
Mi diranno che non sei una scrittrice dell’infanzia, che sei la scrittrice del desiderio, e che l’infanzia è una mia ossessione – e avranno ragione, ma non del tutto. L’hai detto tu che hai cominciato a scrivere per superare la solitudine infantile, e che ogni scrittore parla d’infanzia perché per i bambini l’ingiustizia è inaccettabile. Hai persino detto di esserti sbarazzata dell’infanzia scrivendo Una diga sul Pacifico, ma mentivi: nessuno può farlo. Deve restare aperta, infetta, quella ferita – pena, la perdita della scrittura.
Io credo che l’infanzia attraversi la tua opera intera. Perché il desiderio è per i tuoi personaggi una rivendicazione di esistenza, che dall’infanzia rappresenta il tentativo d’uscita, lo strappo, l’intelligenza nuova che recide il cordone ombelicale. E perché per loro l’infanzia è una condizione non anagrafica ma psichica. È quell’assenza, lo scollamento dalla comunità, l’estromissione, la resistenza passiva che riguarda molti dei tuoi personaggi. La mendicante, per esempio, che incontrasti da bambina a Vinh Long, e che ti ossessionò fino alla vecchiaia, fino a L’amante del 1984. La tua «piccola pazza» Lol V. Stein, che incantò Jacques Lacan, e da cui ogni tuo personaggio femminile deriva. Il Viceconsole, che spara di notte sui lebbrosi di Lahore. Ernesto, l’unico bambino protagonista di un tuo lavoro, che nel film Les Enfants, Orso d’argento a Berlino, è interpretato da un attore adulto. Ernesto non vuole andare a scuola perché lì gli insegnano cose che non sa; sebbene analfabeta, legge però il libro bruciato dei re d’Israele e coglie la vanità dell’universo, fino alla follia.
E poi tua madre, Marguerite: anche lei è rimasta intrappolata nell’infanzia.
Lei che abdicò per sempre al piacere, che fu ingenua, o incosciente, che sperò con la stessa ostinazione di una bambina, che sognò una diga per ristabilire la giustizia, e fu delusa. Lei che piangeva e cantava e gridava e picchiava, che non sapeva trattenersi neppure davanti ai figli, lei che era pazza, al modo in cui lo sono i bambini, non ancora addomesticati dalle norme sociali, dalla rassegnazione dell’età adulta, anzi strabordanti di una libertà che converge con la natura, persino con la natura inoppugnabile che può distruggerla, l’infanzia.
Credo di essermi in segreto autorizzata a scrivere dopo averti scoperta. Eri stata la bambina bianca che giocava con gli indigeni perché scartata dagli altri bianchi, eri arrivata in Francia a diciott’anni e le bistecche ti disgustavano, il cibo occidentale non lo mandavi giù. Eri stata straniera, diversa, nata da nessuna parte, figlia e sorella di illetterati, come me, aderente a te stessa come solo i bambini. Ai miei occhi è in quest’adesione l’origine del gesto di scrivere. Un’infanzia protratta, che separa dal mondo, il costante pericolo di esserne scagliati fuori e, insieme, l’unica forma della speranza possibile.