Nella sua prefazione a Piccole donne di Louisa May Alcott la filosofa femminista Luisa Muraro scrive che, volendo usare delle etichette, lei parlerebbe di romanzo d’iniziazione: “Il romanzo di formazione mostra un percorso per diventare quello che la società domanda o aspetta, mentre il romanzo di iniziazione racconta i passaggi che ti portano a scoprire quella che sei, e a diventare quella che puoi essere, più profondamente. L’iniziazione ha a che fare con la nascita della libertà, quella associata alla scoperta di sé”. Ripensavo al suo scritto, dopo aver visto Povere creature!, e anche a Carla Lonzi, alla sua donna vaginale e alla donna clitoridea, intese come condizioni esistenziali che corrispondono, simbolicamente, a quella di una donna non libera plasmata dal patriarcato e a quella di una donna liberata dal patriarcato. A me e all’amica con cui sono andata al cinema sembrava una lente buona, e a noi familiare, per parlare di questo film matto e scintillante.
L’idea al centro di Povere creature! di Yorgos Lanthimos, ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore scozzese Alasdair Gray, è immaginare “di cosa sarebbe capace una donna se potesse ricominciare tutto da zero”, come ha spiegato l’attrice e produttrice Emma Stone. E il film parte proprio dall’inizio, dal “punto centrale della nostra inferiorizzazione”, direbbe Lonzi: dal corpo, dalla sessualità e anche dall’arte medica che, fin dalle sue origini, ha armeggiato con i corpi delle donne costruendo la loro esclusione e oppressione in base a presunti principi “naturali” e biologici. La medicina, con la sua anatomia favolosa in cui utero, ovaie e isteria venivano identificate come cause di tutti i mali femminili, è stata un momento centrale della gestazione del patriarcato e ha prodotto conseguenze che hanno superato di gran lunga i confini dei corpi sui quali è intervenuta.
In Povere creature! Bella Baxter (interpretata da Emma Stone) è una giovane donna suicida che viene “riparata” dallo scienziato Godwin Baxter (Willem Dafoe) il cui padre (“un uomo dalla mente non convenzionale”, come si dirà all’inizio, ma non alla fine) ha a sua volta condotto i propri esperimenti su di lui, incidendo, assemblando e menomando il suo corpo e il suo viso. Godwin, detto God, impianta nel corpo di Bella il cervello del feto che lei porta in grembo e la riporta in vita, cancellando ogni traccia di lei e del suo passato. Sotto la protezione controllante di questo padre-creatore Bella, che usa la sala operatoria come stanza dei giochi e i cadaveri come bambole, ricomincia da capo. Impara a camminare e a parlare, a conoscere il proprio corpo, il mondo e ciò che desidera.
L’inizio della storia è dunque la ben nota fantasia di una mente maschile che, invidiosa della potenza generativa, pretende di mettere al mondo (e di mettersi al mondo) da sola, partorendo un corpo (anche politico) a propria misura: razionale, capace di creare ordine e legittimato a dare ordini a tutti quei corpi che non gli somigliano. Impiantare il cervello del feto nella donna che lo contiene, come accade a Bella, non è altro che la sublimazione di quella tracotanza che chiude in modo definitivo, con una sorta di matricidio originario, tutta la questione.
In questa dimensione domestica senza alcuna via di scampo (e i cui confini coincidono con quelli del mondo stesso) la donna-bambina sarà costantemente accudita, monitorata, controllata e sottoposta alla dolce catena della protezione. Verrà resa adeguata, sarà istruita su quali siano i codici di comportamento propri di ciascun sesso, su cosa si possa fare o non fare, dire o non dire. E all’inizio Bella, che parla di sé in terza persona, ripete in modo ventriloquo quel che le è stato inculcato (“sì, loro mi amano tanto”, dirà per esempio del contratto matrimoniale che il padre e il suo assistente hanno pensato per lei). Più avanti le parole le verranno letteralmente messe in bocca per non farla risultare fuori luogo in società e tenteranno di frenare il suo desiderio di apprendere (“Sei sempre sui libri Bella. Stai perdendo il tuo adorabile modo di parlare”). Gli uomini della sua vita vorrebbero insomma disporre di lei e la imprigionano, ciascuno a modo suo, ma tutti dichiaratamente spinti dall’amore (“Perdonami se ti ho rapito, ma è stato un atto d’amore”, “Se si deve proprio annegare, allora che sia nel fiume dell’amore”, le diranno).
Nonostante nessuno le riconosca la possibilità di volere pienamente qualcosa, Bella ottiene di andare per il mondo per capirlo e dunque capirsi: lo farà urlando, rompendo i piatti e facendo i “capricci” agli occhi di chi la pretende eternamente infantilizzata. Espressioni di un sentire che nel tempo lei imparerà a nominare esplicitamente come rabbia.
Il fatto di essere stata messa al mondo in un corpo già adulto permette a Bella di essere disincantata rispetto ai pregiudizi e alle ingiunzioni sessiste. Ha un rapporto disinibito con i propri desideri, anche sessuali, e soprattutto con il linguaggio nominando dunque in modo franco, spietato e spiazzante le cose per quelle che sono. Come una bambina, come una pazza, come un’isterica (“Mi vuoi sposare o mi vuoi uccidere? È questa la tua proposta?”).
Bella si rimetterà al mondo da sé attraverso il corpo e la sessualità. Il desiderio di emancipazione arriva per lei, esattamente come tradizione vuole che avvenga solo per gli uomini, con la maturità sessuale e la scoperta dell’orgasmo: non, dunque, con la comparsa delle mestruazioni e con la possibilità di riprodursi, ma attraverso il piacere. Le diranno che non si fa, che non sta bene e tenteranno di mutilarle la clitoride, “quell’affare diabolico che avete tra le gambe, che va tolto” e che viene esplicitamente nominato come “la radice del problema”. Ecco la donna vaginale e addomesticata che gli uomini vogliono che lei continui a essere. Ed ecco, invece, la donna clitoridea, liberata dal patriarcato, dalle sue oppressioni, dai suoi miti, dalle sue parole d’ordine e dalle sue pretese di passività che lei sta diventando: “Mi terrò la mia vita e la mia clitoride”, dirà con determinazione alla fine.
Se per Bella la sessualità è la chiave dell’autodeterminazione, la sessualità degli uomini che incontra sembra invece qualcosa di poco risolto e che il film riesce a rappresentare in modo ridicolo e grottesco: qualcosa di immorale, una maledizione, confesserà un prete a un certo punto, qualcosa di cui non si riesce a parlare in modo schietto, se pensiamo al lunghissimo giro di parole che fa God per spiegare la propria condizione. E qualcosa di cui vantarsi, naturalmente, oltre ogni obiettivo contatto con la realtà (“Sei appena stata scopata tre volte dal migliore”, millanterà l’amante spossato interpretato da Mark Ruffalo. “Ma allora avete un problema fisiologico, di debolezza, voi uomini…”, constaterà lei).
Bella intuisce come la sessualità libera e autodeterminata di una donna sia l’unica cosa che riesce a mettere in discussione il desiderio di proprietà degli uomini. Lo capirà facendo del proprio corpo anche il proprio mezzo di produzione e osservando l’effetto che questo ha sugli uomini: potrebbe cercarsi un nuovo amante, dice, ma questo richiederebbe moltissimo tempo e moltissime attenzioni lasciandole poca libertà di fare quel che le piace (la medica). Stare a fianco di un uomo ostacolerebbe la sua “rotta verso la libertà”, le conferma la maîtresse del bordello dove Bella troverà lavoro e che sembra fare da contraltare a un’altra figura femminile, quella di Marta, la vecchia signora e alleata, che Bella incontra sulla nave. A quest’ultima interessa più quello che ha tra le orecchie che non quello che ha tra le gambe, mentre la maîtresse, con il suo corpo avvizzito e vistoso, sa bene che di lei un giorno non resterà che un “vuoto guscio”.
In questa sua nuova esperienza Bella non mette dunque in campo solo il puro corpo. Non rinuncia al proprio desiderio di conoscenza né a pensare nuovi modi di fare le cose, se i modi di prima non funzionano. Si farà raccontare le vite dei clienti che incontra, propone che siano le donne a scegliere gli uomini che poi le pagheranno, scopre che alcuni si eccitano vedendo il dolore dell’altra e comprende che anche l’educazione sessuale viene trasmessa in modo patrilineare. Senza rifiutare gli uomini, Bella scopre infine che il piacere può arrivare anche in loro assenza e non solo facendo da sé. In quel rapporto intimo tra donne e nella relazione politica con l’altra Bella, che ha cominciato a capire come funziona il mondo, inizia a prendere coscienza anche di sé e della propria storia. E lo fa, di nuovo, a partire dal proprio corpo, dal taglio che porta sul ventre e che non è quel che le hanno sempre raccontato (“Te l’ha detto un uomo?”, “Dio in persona”, “Voilà”, sarà lo scambio tra lei e la collega-compagna).
Tornata a Londra dal padre-creatore ormai morente, Bella porta con sé “sguardi arrabbiati, domande difficili”, e una nuova consapevolezza che le consente di decidere, stavolta di propria iniziativa, di sposare l’assistente del padre. All’altare, e indossando il velo come una graziosa museruola, si presenta però un’ultima e necessaria complicazione che la porterà a scoprire fino in fondo quel che era stata prima e a fare giustizia non solo per sé.
Nell’incontro con l’ex marito generale tutto si fa esplicito e riconoscibile. Ed è il momento in cui finalmente quel tutto crolla: in una delle scene più liberatorie del film Bella si ritroverà faccia a faccia con l’incarnazione più virulenta della maschilità. Riuscirà a sottrarle di mano le armi che le erano state rivolte contro, ma senza trovarsi nella condizione di doverle usare: perché, di fronte alla consapevolezza di sé e del mondo ormai raggiunta, quell’uomo crollerà miseramente, ridicolmente e banalmente scivolando sul proprio sangue.
Emancipandosi dal patriarcato che l’ha letteralmente messa al mondo alle proprie condizioni, Bella comprende che quasi nessuno degli uomini che la circondano è alla sua altezza, all’altezza della sua libertà: sono così familiarmente fragili, confusi, macchiettistici, persino nei momenti in cui vorrebbero agire la loro leggendaria violenza.
Una volta morto Dio (che ha a sua volta subito le conseguenze dei deliri di onnipotenza del padre, indicato infine per quello che è: “un povero idiota”), una volta ritrovata la propria storia, la propria voce e dopo aver rimesso ciascuno al proprio posto, Bella può finalmente parlare in prima persona, non più in modo ventriloquo né pensato da altri. Consegna a se stessa e anche alla donna che l’ha preceduta la libertà. Mostrando come le vicende individuali siano radicate in una genealogia che le trascende. Mostrando che la libertà non è mai tale se non è anche di altre e per altre.
Povere creature! è una fiaba sull’emancipazione, è vero, ma è anche un racconto sulla costruzione della femminilità, su quel che è stato fatto alle donne per provare a farne qualcosa di diverso. Ed è un racconto sulla povertà del patriarcato. E se è vero che non lo farà tremare, ci suggerisce come tutto sia già stato visto, svelato e nominato per quel che è. Ci ricorda che il re ha molti volti, ma anche che è nudo, come quello che l’aveva preceduto e come probabilmente quello che sta per arrivare. Finché non si troverà un nuovo modo di fare le cose.