A vibrant celebration of Iranian rebel women – in pictures
2 Ottobre 2022I musei fuori dai musei
2 Ottobre 2022di Vincenzo Trione
All by myself. Potremmo muovere dal titolo di questa celebre canzone di Céline Dion per accostarci a quella sorta di egocalisse ordinata, negli anni, da Nan Goldin, la cui ricerca verrà celebrata in un’ampia antologica itinerante al Moderna Museet di Stoccolma (29 ottobre-26 febbraio) e, poi, allo Stedelijk Museum di Amsterdam (agosto 2023-gennaio 2024), alla Neue Nationalgalerie di Berlino (ottobre 2024-marzo 2025) e al Pirelli HangarBicocca di Milano (marzo-luglio 2025). Come una Via Crucis scandita in sette sale, concepite come cellule autonome, dedicate ai diversi cicli fotografici e cinematografici. Idealmente, questo viaggio per stazioni verrà integrato dalla personale in programma nel 2024 al Centro Pecci di Prato, che ospiterà una selezione dei viaggi in Italia dell’artista statunitense (Napoli, Torino, Venezia, Sicilia). Intanto, la Pinacoteca Agnelli, sulla pista affacciata sul Lingotto, in occasione della prossima edizione di Artissima, presenterà, su un billboard, una foto di grande formato di Goldin.
Occasioni per tornare a interrogarsi sulla filosofia di un’artista corporale, i cui anni di formazione sono caratterizzati dall’incontro con il cinema di Warhol, di Fellini e di Antonioni. In seguito, la scoperta di Guy Bourdin e di Helmut Newton. E la frequentazione del fotografo Henry Horenstein, che introduce all’estetica delle istantanee. Grazie a Horenstein, Goldin conosce un reportage di Larry Clark su un gruppo di giovani ribelli e tossicodipendenti nella piccola città di Tulsa, in Oklahoma (1971). Ritroviamo questi rimandi nei primi diari pubblici di Goldin. Come Ivy Wearing a Fall, Boston (1973), le cui protagoniste sono drag queen riprese a casa e nei bar gay.
L’interesse per coloro che rifiutano le ritualità borghesi e scelgono di varcare i confini dello scandalo porta questa artista ostinata a lasciarsi sedurre dalle atmosfere maledette dell’East Village newyorkese, frequentato dal 1978. A quel periodo di eccessi risalgono le ricognizioni della scena musicale new wave post-punk e delle sottoculture gay.
È il 1979 quando Goldin, in vari club e discoteche, organizza The Ballad of Sexual Dependency, uno spettacolo ispirato da una canzone d’impronta brechtiana di Kurt Weil: uno slide show accompagnato da musica. Un’opera interminabile che, fino al 1986, verrà continuamente arricchita: settecento scatti montati, fino a formare un flusso visivo sincopato di circa quarantacinque minuti. È la cronaca di una tribù di emarginati. Droghe, sesso estremo, intimità violenta. Malattia. Morte, per overdose o per Aids.
A quel mondo e a quell’artificio compositivo Goldin è rimasta fedele, sempre incline a mescolare autobiografia e scrittura dell’opera, come emerge dal film diretto con David Armstrong, I’ll be Your Mirror, prodotto dalla Bbc nel 1995, dove ricostruisce, per materiali d’archivio e interviste, la sua avventura: una biografia dei sogni e delle sconfitte della controcultura giovanile degli anni Settanta e, insieme, il resoconto del dramma di un’intera generazione ferita a morte. È il preludio a All the Beauty and the Bloodshed, lo struggente film-documentario di Laura Poitras (appena premiato con il Leone d’Oro al 79° Festival di Venezia).
Un’egocalisse, dunque. Goldin parte sempre da sé. Impegnata, sulle tracce delle culture romantiche, a intrecciare e a sovrapporre arte ed esistenza, mette a nudo il proprio ego, per comporre taccuini del privato dove sedimenta umori e ossessioni, pazzie e devianze, rabbie e sofferenze, dolori e angosce. Concepisce la fotografia come un dispositivo per fermare imposture del quotidiano e per conservare momenti di quella che resta «la malattia mortale per eccellenza: la vita» (per ricorrere alle parole di Lea Vergine). Al centro del suo teatro della soggettività pone sé stessa, senza filtri. Situandosi in un continente segnato dalle stigmate dell’alterità, fa arte per testimoniare il proprio vissuto, per salvare emozioni passate, infine per esorcizzare la morte. Sorretta da un’urgenza testimoniale, evita ogni pietas. Ecco: All by myself, come canta Céline Dion, in sottofondo, in uno slide show di Goldin.
Nell’esibire il proprio universo affettivo e relazionale, questa «mistica della bellezza suicida» (come l’ha definita Jerry Saltz) ci fa sprofondare così in un abisso senza speranza né redenzione. Forse sulle orme della Commedia dantesca, conduce dentro malebolge abitate da suicidati della società, incapaci di salvarsi, corrotti da droghe e da consuetudini sessuali deviate, condannati a un presente senza domani. Per queste donne e per questi uomini, l’Aids è colpa, prova di comportamenti pericolosi, simbolo di decadenza morale e di rischi legati a scambi pericolosi: «Con l’Aids — ha scritto Susan Sontag — la vergogna è legata a un’imputazione di colpa, (…) contrarre l’Aids vuol dire rivelare di appartenere a un certo “gruppo a rischio” (…). La malattia rende esplicita un’identità che avrebbe dovuto rimanere nascosta».
Una tragedia postmoderna. Una discesa agli inferi da vedere, ma anche da sentire con l’olfatto, l’udito e il tatto. Come nei gironi danteschi, nelle cantiche di Goldin ci sono orrore e degrado. Sequenze di abiezioni. Scenari newyorkesi notturni, asfittici e claustrofobici, con individui condannati alla precarietà, all’abbandono fisico e psicologico, scissi. Una famiglia di amanti, uomini, donne, gay, transessuali, prostitute, membri della comunità Lgbtq+. Brandelli di vite estreme, attraversate da un’aura mortale. Ambienti sciatti, camere da letto sfatte, corpi, abbracci, sguardi, sorrisi, mani, lacrime, lividi, sigarette, alcol. Scarpe capovolte, vestiti stropicciati, lenzuola sporche, pareti sporcate dalla muffa, cucine in disordine, nuvole di fumo, televisori accesi. Pelli tatuate, cicatrici, capelli decolorati, sguardi depressi, sofferenti, apatici, impotenti di fronte allo scorrere del tempo.
Nessuna passione, nessun erotismo. Il sesso come strumento per smascherare finzioni e per riempire il vuoto esistenziale. Corpi debilitati, feriti, picchiati, senza immunità, contagiati, ammalati, svelati nei loro demoni, come luoghi della solitudine e di un dialogo senza mediazioni. «Il tema centrale è l’amore come condizione positiva della realtà. (…) Il sesso è un modo di rompere tra te e l’altro, la maniera più diretta di comunicare», ha dichiarato Goldin. Che non ricerca la bella fotografia. Non vi è nulla di patinato o di compiaciuto nei suoi scatti che, spesso, risultano duri, disturbanti, imperfetti, istantanei, rubati, occasionali, con messe a fuoco sbagliate. Frequenti le zoomate, che devono molto alla lezione dell’Antonioni di Blow Up: «I personaggi abbattuti ed emaciati, con i loro lividi e le loro facce da fantasmi, che popolano le mie immagini, spesso fotografate nei bui interni sgangherati, si riferiscono fisicamente ed emotivamente al carattere alienato e marginale dei soggetti che hanno attratto Antonioni», ha dichiarato Goldin.
Frammenti e istanti, destinati a disporsi in una cornice unitaria. Ogni foto è come il frame di un quasi-film. O come la pagina di un romanzo visivo attraversato da echi caravaggeschi e shakespeariani, fatto di colori decomposti, spesso accompagnato da scarne didascalie e da brani musicali trattati come voci narranti. Dinanzi ai nostri occhi si disegnano i contorni di un’epica del dolore. Un libro dei morti. Un archivio di addii. Come un disperato tentativo per catturare la luce che le cose irradiano prima di diventare cenere.
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