di Susanna Nirestein
“Hard Rain Falling” è il capolavoro di Don Carpenter. Un romanzo di formazione, delitto, castigo e redenzionediSusanna Nirenstein
Ha ragione George Pelecanos: questo libro, Hard Rain Falling di Don Carpenter, « è una rivelazione» come scrive nell’introduzione al romanzo. Uscito per la prima volta nel 1966, dopo un breve periodo di successo scomparve misteriosamente nell’ombra nonostante il suo stile perfetto, secco, duro, ampio, la sua capacità analitica dell’animo confuso, ribelle e rancoroso che animava le bande giovanili americane di quegli anni. Non solo, eccezionali sono anche le sue incursioni negli sprazzi di coscienza impotente che gorgoglia in alcuni di quei soggetti spesso decerebrati, scompigliati, persi, feriti dalle loro pessime origini, colpisce, e strazia la sua totale empatia con il loro dolore o viceversa con la loro totale inconsapevolezza o per i loro barlumi di pensiero. Meritoriamente nel 2009 il volume fu ripubblicato dalla New York Review of Books tra i classici: ora le edizioni Clichy altrettanto mertitoriamente ce lo propongono. Ed è una bellezza.
Carpenter, classe 1931, morto suicida nel 1995 ( teneva sempre il fucile nella sua scrivania) forse per le malattie che si portava dietro, forse per le delusioni subite, scrisse altri titoli e racconti brevi e sceneggiature ( spesso ambientati nel mondoletterario e cinematografico che popolava la West Coast della beat generation e Hollywood, come l’incompiuto I venerdì da Enrico’s poi terminato da Jonathan Lethem e pubblicato da Sperling&Kupfer nel 2017). Il suo capolavoro però è questo, Hard Rain Falling: una ruvida storia di formazione, un feroce resoconto di emarginazione e illusione di appagamento, un racconto quasi dostoevskiano di crimine, punizione, ricerca di una redenzione sempre inafferrabile. Pieno di sensibilità però.
La scena in cui si svolge sono squallide stanze di hotel, polverose sale da biliardo di Portland, Oregon, dove Carpenter crebbe, brutali riformatori degli anni Cinquanta, la prigione di San Quentin, la città di San Francisco.
Il protagonista principale è Jack Levitt, all’inizio un ragazzo di diciassette anni fuggito dall’orfanotrofio (il libro apre con un prologo sulle circostanze senz’anima, sul deserto emotivo in cui nacque senza mai conoscere i genitori, per altro morti violentemente poco dopo). Ha l’aria da duro, un’aria cattiva ma non rabbiosa, è grosso, con gli occhi da serpente, riccioli biondi spettinati. Fa paura. Una maschera forgiata dopo aver scoperto che nessuno l’avrebbe protetto. È in piena crisi esistenziale ma ha anche delle idee semplici e chiare su quel che desidera, una montagna di “soldi”, e pensa sia suo diritto prenderli a chiunque, “una bella fica” (ma presto gli sembrerà quasi di masturbarsi tanto la cosa è ripetitiva), molto whisky, una bella cena, una macchina con cui schizzare a 160 l’ora, vestiti nuovi, una calibro 45 automatica. Visualizzati i suoi obiettivi sta già meglio e nella sala da biliardo incontra qualche amico della banda di Broadway, teppistelli, adolescenti che disprezzano la scuola e bramano una vita eccitante prima di scomparire per un po’ o per semprenell’esercito, in prigione, in un matrimonio, in un lavoro squallido.
Ma è l’arrivo di Billy Lancing, un sedicenne snello, nero giallastro, gentile, un bel sorriso, un gruzzolo nel taschino messo su per scappare dalla casa piena di fratelli, zii, nonni, a cambiare la scena. Lui ha un talento, sa giocare a biliardo come un campione e Jack lo invidia davvero ( lui talenti non ne ha, sa picchiare, questo sì), eppure anchese gli sta simpatico e scommette su di lui e vince (Billy è capace di battere anche i migliori), pensa subito di poterlo derubare, solo che l’occasione non capita. Neppure quando gli amici più fedeli rubano una Cadillac e insieme alla banda si trasferiscono per fare una festa nella casa borghese vuota di un amico e semplicemente la devastano. I più furbi si dileguano col bottino o se la filano, Jack, ubriaco, si addormenta in una stanza e si sveglia con la polizia.
Il riformatorio è devastante: tre mesi in una cella di punizione, un buco senza luce dove, nudo, Jack non percepisce più né colori né pensieri: nei rari momenti di sé si interroga sulle vie che ha davanti, ma nonostante una volta uscito voglia riflettere e provi a lavorare, ripiomba a Portland, nella sala da biliardo, e si caccia in un guaio grosso.
L’aspettano la galera e le sue leggi violente e poi la prigione di San Quentin: eppure, meraviglia delle meraviglie, lì l’attende anche Billy Lancing e l’amore, pagato a caro prezzo (un inatteso, cauto e pensoso viaggio nell’omosessualità: siamo nel 1966! e Carpenter non crediamo fosse gay). L’amore, forza sconosciuta, capace di distruggere ma anche di rimetterti completamente in gioco: una volta uscito, a Jack darà la forza di ripensarsi, persino di progettare una famiglia. Ma non crediate che sia semplice, per Jack niente può essere semplice.
Don Carpenter
Hard Rain Falling
Edizioni Clichy Traduttori Fabio Cremonesi Micaela Uzzielli pagg. 456 euro 22Voto 8/10
OIl colpoSala biliardo ad Harlem, New York, nel 1965