R.E.M. – Losing My Religion
2 Giugno 2022News, press
2 Giugno 2022Miti Il suo corpo marmoreo ha sedotto viaggiatori, artisti, scrittori stuzzicandone le fantasieNel saggio di Attilio Brilli le reincarnazioni della dea tra rovine e trionfi nel passaggio delle epoche
Un fantasmatico corpo di indicibile bellezza abita l’Italia. Raffinati viaggiatori ne sono attratti e lo ricercano per ammirarne le paradigmatiche forme. Ha fama di essere uno degli incontri strabilianti in una terra che ha avuto la fortuna di serbare reliquie classiche nel loro sfolgorante splendore. È il corpo della dea Venere, che emana un fascino seduttore dettando canone e proporzioni. Attilio Brilli spiega che «la statuaria classica ha costituito, in Italia, il principale richiamo dei viaggiatori e, per quanto concerne le statue di Venere, è stata l’abbagliante nudità a eccitare la fantasia di quanti provenivano da paesi permeati dalla tetra austerità del calvinismo o, successivamente, dal Nuovo Mondo ‘innocente’ e puritano». Così, in un libro che si distingue dai molti suoi incentrati sulla letteratura odeporica (Venere seduttrice, il Mulino) per una costruzione a capitoli narrativi, l’autore si sofferma sulle emozioni e sui turbamenti di sguardi che si posano sulle reincarnazioni, perlopiù marmoree, della greca Afrodite nelle versioni assunte presso Roma, ancor prima della fondazione: un santuario in onore di Venere era stato primamente eretto a Ardea. Risale al 114* a.C. l’apertura di un tempio a Venere Verticordia, capace cioè di trasformare il cuore umano. Prende consistenza un culto di stampo religioso. E tra gli esemplari ormai custoditi in musei si scatena quasi una gara. È talmente numerosa la schiera evocata, tanto diversi i giudizi che è inevitabile puntare su una smilza scelta antologica delle osservazioni riportate dai visitatori-pellegrini.
CelebritàLa Venere dei Medic i nella Tribuna degli Uffizi è la più conosciuta e citata. Accanto a lei spicca in un’arbitraria classifica la Venere Capitolina in Campidoglio e, a sigla terminale non solo per ubicazione, si erge l’acefala Venere Landolina (dal nome delle scopritore Saverio Landolina) di Siracusa. All’inizio c’è una leggenda che esprime una significativa cesura. Lorenzo Ghiberti racconta che a Siena, nel 1345, nel corso dei lavori di scavo intrapresi per gettare le fondamenta delle case dei Malavolti, era stata dissotterrata una statua di Venere recante alla base addirittura l’iscrizione «opus Lysipi». Aveva sulla gamba un delfino e le si attagliava, dunque, l’appellativo di Venere anadiomene , colei che esce dalle acque: iconografica antenata della Venere medicea. Forse l’episodio generò la denominazione attribuita alla città da Enea Silvio Piccolomini di Civitas Veneris in drastica antitesi con l’epiteto successivamente affermatosi di Civitas Virginis. La protettrice Madonna dedicataria della cattedrale avrebbe spodestato la dea pagana ritenuta colpevole di provocare sciagure e disfatte. I consiglieri del Concistoro decisero di disfarsi del malevolo reperto, lo fecero a pezzi che nottetempo seppellirono presso le mura della rivale Firenze nella speranza che avesse la stessa funzione iettatoria. L’aneddoto s’inquadra emblematicamente in un passaggio di epoche.
RinascitaLa pittorica Venere marina di Botticelli sembra rappresentare la rinascita della fanciulla che, dopo essere stata issata sulla Fonte Gaia nel Campo, era caduta in disgrazia: ritrovava il respiro del trionfo, in equilibrio su una conchiglia somigliante alla piazza-vulva dalla quale era stata cacciata. La Venere dei Medici , donata dal pontefice Cosimo III di Toscana, approdò assai più tardi a Firenze in provenienza da Roma e fu ospitata nell’ottagonale spazio delle meraviglie che Henry James definì «una piccola stanza del tesoro colma di opere perfette». Tanto eccelsa era stata la sua fama che fu imbarcata in un lungo viaggio a tappe per spedirla allo spasimante Napoleone. Quando — mediatore Antonio Canova — circondata da un mucchio di opere d’arte recuperate, fece ritorno a Firenze , il suo ingresso fu festeggiato dal popolo con slancio degno di una concittadina ricondotta nell’ovattata dimora prediletta. Il culto si riaccese. Charlotte Eaton dice di aver assistito stupefatta, nel 1817, alla deposizione di omaggi floreali ai piedi della dea, quasi fosse una sacra icona. Il poeta inglese Samuel Rogers si bloccò adorante illudendosi di rianimarla, novello Pigmalione, e coniò versi in una guida di ampia diffusione: «Agli Uffizi si va ad adorare, / nel suo piccolo tempio di ricca fattura, / Venere in persona la quale, lasciato il cielo / ha scelto questo luogo come sua dimora». Non tutti ne tessero lodi indiscriminate. Richard Colt Hoare, un banchiere britannico appassionato di classicità, le anteponeva la procace e disinvolta Venere capitolina. A Firenze sembrava piuttosto schermirsi in un elegante gesto pudico. Percy Bysshe Shelley trascorse intere mattinate a corteggiare la ritrosa dea, ma non nascose di essere più colpito — morboso voyeur — da una Venere nel bagno , di frequente detta accosciata, sorpresa mentre si sta asciugando i capelli in una sensuale posa involontaria. Anna Miller, tanto per cambiare poetessa britannica, nel diario in data 1770 ne aveva annotato le fattezze e l’aveva comparata ad un’ ingenua ragazzina tredicenne. George Gordon Byron si allinea (1819) ai fanatici corteggiatori della Venere medicea tributando ovvi versi esclamativi al «più bel sogno che abbia abbandonato il cielo».
RigoreIl gran finale del romanzesco divagare ritmato da Brilli con sapiente montaggio culmina nell’inno che Guy de Maupassant declama davanti alla siracusana Venere Landolina , una statua senza testa, immobilizzata in enigmatico rigore: «È piena, col petto colmo, l’anca possente e la gamba un po’ pesante: è una Venere carnale, che si immagina sdraiata vedendola in piedi». La divinità aveva perduto l’aura che l’avvolgeva. Il procedere da reincarnazione in reincarnazione stava scadendo in un greve naturalismo. La traiettoria disegnata trascrive e commenta una miriade di altre interpretazioni. Ogni mito è creato per un mondo senza tempo, ma la ricezione cambia vertiginosamente secondo gusti e estetiche via via prevalenti. È questo il sugo di trarre dalla rigogliosa escursione. A chiusa non sarebbe stato fuori luogo riprendere il sintomatico accenno di una lettera che Giacomo Leopardi scrisse da Roma, il 5 aprile 1823, al fratello Carlo: «Veramente non so qual migliore occupazione si possa trovare al mondo, che quella di fare all’amore, sia di primavera o d’autunno; e certo che il parlare a una bella ragazza vale dieci volte più che girare, come io fo, attorno all’Apollo di Belvedere o alla Venere Capitolina ». In un poeta-filosofo fedele all’eredità classica, salivano alla ribalta, con i nomi di Silvia e Nerina, umili giovinette stroncate da una precoce morte. Il moto di una disperata compassione sostituiva un estetizzante schema tramandato da secoli.
Roberto Barzanti
https://corrierefiorentino.corriere.it