IL MISTERO DELLE BRIGATE ROSSE
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di Roberto Barzanti
È stato un Natale diverso. Sono andato un po’ in giro a visitar presepi, come d’abitudine. Fin giù, nel senese profondo, a Sarteano, dove il museo dedicato ai «Presepi dal mondo» esibisce invenzioni provenienti dai quattro angoli della terra, a riprova della dimensione universale (o quasi) di una tradizione che fiorisce, devota e artistica, nel solstizio d’inverno. È bastato che l’Istituto universitario europeo accennasse a sostituire la parola Natale con una vaga formula stagionale per scatenare una rivolta in nome di un’identità tradita. E ora c’è chi vuol rendere obbligatorio per legge il presepio in ogni scuola, quasi costituisse la concretizzazione di un immaginario essenziale per un completo iter pedagogico. Il cardinal Zuppi ha frenato, facendo notare che non è il caso di innescare polemiche su operazioni che devono essere improntate ad un’autentica spontaneità e attuate secondo una pluralità di culture e linguaggi. Quando un’iniziativa si è costretti a imporla con una norma si enfatizza una litigiosa debolezza. Fatto è che, in qualunque modo si festeggi il tratto di calendario che va dal 25 dicembre, o giù di lì, all’Epifania e dintorni, si diffonde un’atmosfera che ha al centro un sentimento diffuso, antropologico più che ideologico. Anche chi non crede sarà portato a riflettere su un Dio che si fa carne e viene partorito, sistemato in una povera grotta, in una spoglia mangiatoia.
Perché il Natale eccita gli animi anche di chi non professa una fede? Perché si è mondanizzato a tal punto da moltiplicare forme di partecipazione così plurali e disparate? Le risposte di chi ha studiato il fenomeno pure in un’ottica folklorica non sono univoche. Tra le più plausibili quelle che sottolineano come a fulcro di questo avvenimento sta un inno alla vita che continua con un impulso nuovo, avvincente e inspiegabile. Non è la celebrazione che rinasce, non una resurrezione dalla morte, ma la vitalità che si oppone al buio e al gelo per intraprendere con lena un cammino di luce. Chi spiega la festività conferendo un senso cristiano alla Festa del Sole dell’antica Roma richiama le motivazioni naturali e cosmologiche di un periodo recepito in chiave religiosa. Il Sole, dopo essere giunto al minimo della sua potenza, ricominciava a sconfiggere le tenebre. Era la vittoria del Sol invictus: e la festa esplodeva a Roma e in Egitto, tra i persiani che omaggiavano Mitra e i siriani, e i greci, in altri modi, con altri nomi. Era il segnale di un inizio, smentendo il succedersi di giorni uguali e accendendo il fuoco di una speranza da ritrovare. Non è un incidente che dopo il Natale si precipiti verso la fine dall’anno e che i ritmi incalzanti delle ore culminino oggi nella rivelazione dell’Epifania onorata dai Magi che vengono da Oriente a recar doni a una nuova esistenza. C’è una lezione implicita di pluralità da rispettare nella saggia fatica del loro viaggio. La rozza culla resta vuota finché non arrivano a completare la narrazione. Questo Natale, confesso, l’ho vissuto diverso. Come non pensare, contemplando il cielo punteggiato di stelle di umili presepi, alla scia dei missili che solcano il cielo non distanti da Betlemme? Come non avvertire nel consumismo che distrae e soddisfa gli egoismi e le ambizioni di dominio, la voglia di distrarsi dalle violenze che seminano angoscia e paura? È stato Papa Francesco a sollecitare che i perduranti conflitti siano analizzati lumeggiando cinici interessi e feroci manovre. Ma è appena una premessa. L’annuncio del Natale si invera progettando sul serio un nuovo inizio.
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