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9 Dicembre 2022La reazione possibile
di Mara Gergolet
Come promesso, e con un rito macabro che segna l’avvio dell’età del terrore, il regime degli ayatollah comincia le sue esecuzioni. Si chiamava Mohsen Shekari, 23 anni. Lo accusano di avere bloccato il traffico il 25 settembre scorso durante le manifestazioni e ferito con un coltello un paramilitare basiji. Passerà nei libri di storia come il primo dissidente impiccato di questa nuova, spietata repressione iraniana: colpevole di «inimicizia contro Dio».
Uccidere apertamente, e annunciare quello che finora le milizie compivano «in segreto» — o nelle celle di Evin — rappresenta il segnale che il confronto è diventato esistenziale. Di qua i ragazzi, che non vogliono più sottomettersi, con un coraggio e una radicalità incomprensibile per le generazioni appena più grandi. Di là il regime uscito dalla rivoluzione khomeinista, a cui quei ragazzi non riconoscono più né legittimità, né autorità, né futuro. Ma i suoi capi non hanno nessuna intenzione di lasciare la scena.
Che tutto questo si svolga attorno all’hijab non è accidentale. È il regime stesso che ha messo l’hijab al centro della propria ideologia e del proprio ordinamento statale. Ma non siamo nel 1979, neppure nei primi anni 2000. Dice la scrittrice Roya Hakakian, che era una teenager negli anni della rivoluzione, che «quando le donne nel 1979 manifestavano contro l’imposizione del velo erano da sole. Ora la marea è drammaticamente girata».
E poi Hakakian argomenta: «Gli uomini riconoscono la leadership delle donne e sono dalla loro parte. È chiaro che i manifestanti hanno forgiato un’identità collettiva, che è contraria a quella del regime. E contrastano la misoginia dei mullah con un egalitarismo senza precedenti».
Tendiamo ad avere grande considerazione della solidità dei regimi, non rendendoci conto di quanto dalle loro azioni traspiri la paura e l’angoscia per il futuro. Li riteniamo compatti, granitici, anche quando, come è appena successo in Iran, non c’è nessuno che sappia spiegare se la polizia morale sia sciolta o no, o peggio — come in una commedia surreale — se esista qualche Ente superiore (ma chi?) che abbia il potere di dissolverla. In realtà, come scrivono gli studiosi più aggiornati dei sistemi autoritari, come Timothy D. Snyder, i Paesi autocratici non operano come un blocco, ma come un agglomerato. Anne Applebaum li chiama l’Autocracy Inc., cioè società per azioni. Garantiscono denaro e sicurezza ai loro membri, ma anche qualcosa di più prezioso: l’impunità. Sono agglomerati che si sostengono verso l’interno e verso l’esterno: l’Iran è il primo alleato di Putin nella guerra contro Zelensky, il fornitore dei micidiali droni Shahed. Ma se la lezione ucraina dimostra qualcosa, è che — in controluce — il blocco democratico può trovare modi di coordinarsi ben più efficaci.
Che fare, allora, per l’Iran? Innanzitutto, non è vero che nulla serva o nulla conti. Anche in Italia, per esempio, potrebbe essere approvata una risoluzione (il parlamento francese e quello olandese lo hanno già fatto) con cui i pasdaran vengano dichiarati un gruppo terroristico e si chieda l’espulsione dell’Iran dalla Commissione Onu per i diritti delle donne (dove la Repubblica Islamica siede, chissà per proteggere quali diritti). Prima ancora bisogna difendere e comprendere il valore della parola: capire il suo ruolo riparatorio, e il manto protettivo che può stendere — come un potere magico — contro l’abuso più stritolante e la violenza fisica, semplicemente svelandoli.
Quando i grandi avvocati per i diritti umani dell’Iran, donne straordinarie come la Nobel Shirin Ebadi o Nasrin Sotoudeh, finiscono in carcere ad Evin, o difendono i loro assistiti che in quella terribile prigione sono stati rinchiusi, chiedono alle redazioni dei giornali occidentali una sola cosa: «Scrivete la loro storia, perché gli salverete la vita». Per Václav Havel e i più coraggiosi dissidenti dell’Est europeo, il potere dei senza-potere era proprio nella parola (finché nel 1989, usandola come un cuneo nel Muro, sono riusciti a fare la rivoluzione). All’opposto, il silenzio permette di nascondere la più feroce determinazione di ogni regime. Ben deciso, come quello iraniano, a preservarsi.