Un museo per sostituire la piazza, una collezione da usare come base per fare politica, per scoprire l’altro da te e favorire l’integrazione. Definire uno spazio destinato alla ricerca, all’intrattenimento e all’insegnamento come un posto di scambio quotidiano può pure sembrare una forzatura, ma Christian Greco, direttore del museo Egizio di Torino, è pronto a dimostrare che la cultura sta dove non te l’aspetti. E si muove come non ti immagini. Lo farà grazie a un ciclo di incontri con i suoi colleghi e colleghe, persone a capo di luoghi famosi: dai Musei Vaticani al British Museum, in dieci appuntamenti, da domani all’anno prossimo.
«What is a Museum? », lingua globale per una missione speciale. Che cosa è un museo?
«Il luogo dove allargare il dialogo, prendere atto che l’eurocentrismo è finito e abituarsi a un’altra prospettiva. Apre Barbara Jatta, che gestisce i Musei Vaticani, unico spazio veramente universale. Ci dà subito il concetto di stratificazione culturale, la chiave dell’avventura. I cambi di rotta, il progresso, l’evoluzione di parole e pensieri non possono essere calati dall’alto: un museo ci immerge in una storia condivisa che ci accompagna. Offre strumenti per la comprensione del presente. Partiremo da istituzione italiane per poi aprire al mondo intero».
Lei è parte in causa, non starà dando troppa importanza sociale al museo?
«Basta un numero. A inizio Ottocento i musei in Europa erano 35, oggi sono 18. 000. È il posto ideale dove interrogarci sulle trasformazioni: conserva la memoria e indica il futuro. In più non c’è mai stato un momento così fortunato, i dati di affluenza sono alti e succede pure se il 70 per cento della popolazione li limita alle gite scolastiche, non li inserisce tra le necessità. Immaginare come portare anche loro a scoprire l’esigenza di un museo sarebbe splendido».
Secondo molti il museo oggi è pure il posto dove trovare soluzioni a problemi pratici: migrazioni, razzismo, inquinamento. Verità o utopia?
«I musei non sono depositi di oggetti. Hanno esperienza, scienza e non sono neutrali, asettici, hanno visioni e idee che però partono da basi concrete. Un museo non improvvisa, non usa forzature ideologiche. Costruiamo o dovremmo costruire, dei percorsi a partire dal materiale e da quello che ci racconta. Perché un dato reperto o una precisa opera si trovano lì e non altrove? Come ci sono arrivati, che cosa ci dicono di noi adesso? Come sono sistemati? Perché? In più, in questo momento di profonda digitalizzazione, il museo ci fa ragionare sul concetto di fisicità contemporaneo».
Ha detto che l’Eurocentrismo è finito. Un museo spiega come si accetta la fase successiva?
«Ha gli strumenti per farlo, propone dei passaggi, ospita un passato in cui il fulcro del potere è cambiato di continuo, in cui la geografia si è assestata via via. Dà degli esempi, una pluralità di voci».
Anni fa, per una campagna di abbonamenti mirata a coinvolgere le persone di origini araba, si è scontrato con Salvini e Meloni, oggi al governo. Teme strascichi?
«No. Il museo è una zona sicura, è la casa della democrazia compiuta dove il relativismo è assoluto e per sempre: si discute di tutto continuamente, è il punto in cui interagire. Allora, Meloni e Salvini hanno espresso delle opinioni, io ho dato il mio pensiero: lo chiamerei confronto. Ho anche imparato a fare attenzione a un modo di sentire lontano dal mio».
Era il 2018 e Salvini ha commentato l’iniziativa «Fortunato chi parla arabo» così: «Una scelta razzista».
«Un museo è di tutti, non appartiene agli uni o agli altri. È chiaro che l’oggettività totale non esiste, solo che qui c’è la garanzia di una stratificazione. La storia ci spiega, argomenta. Non dobbiamo avere paura della dialettica, da un dissenso, anche violento come quello, nasce un punto di vista terzo, alternativo».
Dopo la pausa estiva arriva anche Taco Dibbits, direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, parlerete del caso Vermeer, mostra esaurita prima dell’inaugurazione?
«Non è un caso e non dipende nemmeno solo dal nome che evidentemente attira. Il Rijksmuseum è stato il primo, nel 2006, a rinunciare al copyright dando la possibilità di riprodurre immagini a chiunque. Hanno organizzato esposizioni fondamentali per la storia dei Paesi Bassi, una sulla schiavitù molto diretta, ben sapendo quanto il tema sia delicato. Sono andati a prendere i ragazzi delle scuole nei quartieri più difficili con degli autobus. Hanno coinvolto, diffuso e attirato e se c’è curiosità la gente si interessa, vuole scoprire, vedere, partecipare».
La Venere di Botticelli trasformata in influencer incuriosisce?
«Non può farlo perché la conoscono tutti. Sta in qualsiasi bookshop o bancarella di souvenir. Non sono un pubblicitario, però come si può stupire e risvegliare con una Venere stranota? È già evidente, chi la vede pensa di sapere ciò che la riguarda e non presta attenzione. Smettiamola di credere che la cultura vada semplificata, smettiamola di usare il super famoso convinti di andare sul sicuro. I musei espongono il 4 per cento del loro patrimonio, il resto sta nei depositi. Stupiamo, rendiamoli visitabili, apriamo alla sera, comunichiamo le nostre scoperte. Poniamoci per quello che siamo: una fonte di sapere, non la fiera dell’ovvio».
Tra gli altri ospiti anche Laurence des Cars, direttrice del Musée du Louvre che ha invitato influencer veri e rapper e Kardashian. Un po’come l’operazione Ferragni agli Uffizi. Strada da mutuare o evitare?
«Cercherò di capire quale era l’obiettivo e se è stato raggiunto. Il Louvre ha un problema diverso dagli altri, deve gestire l’abbondanza. Una massa di visitatori e tutti interessati a due opere, legati a oggetti iconici».
In questi due mesi anche l’Italia si è sentita invasa dai turisti. Come si trova un equilibrio?
«Con la conoscenza. Dovremmo lavorare per promuovere il territorio, non dei singoli punti e per farlo serve che i musei vivano sempre non per i ponti o le feste comandate o le ferie. Non possono essere meta di un turismo intelligente se prima non diventano incontro per la comunità che dovrebbe abitarli, frequentarli. Il turista è un valore aggiunto e deve avere dei richiami diversi da quelli che conosce a memoria. Si ritorna al discorso della Venere. Se riusciremo a mettere sulla mappa i musei meno conosciuti e comunque portatori di offerte valide, avremo reso le visite più capillari, veicolato i flussi, diffuso la ricchezza. Prima si rende questa opzione possibile e poi la si passa ai grandi tour operator».
C’è una sfida che vuole lanciare ai suoi colleghi in questi dieci incontri?
«Farò a tutti la stessa domanda: “Abbiamo un futuro? “. Vediamo che cosa ne esce».