di Niccolò Zancan
La stanza dell’obitorio è la numero 3. Arrivano ragazze e ragazzi in lacrime, entrano e si aggrappano, letteralmente, a due genitori che hanno appena perso la figlia. Adolfo Lorenzi e Elena Rosa Cardinale restituiscono a tutti un abbraccio più forte ancora, una carezza sul viso e una parola di fronte all’indicibile. Perché qui, circondata dalle montagne, ieri mattina è morta Matilde Lorenzi, una campionessa di sci, una studentessa di Psicologia, una ragazza che avrebbe compiuto vent’anni il 15 di novembre.
Era caduta il giorno prima sulla pista Gravand G1, in Val Senales. Tesserata per il Centro Sportivo Esercito nella squadra juniores femminile di sci alpino, stava preparandosi per la nuova stagione di gare. La caduta è stata rovinosa, ha sbattuto la testa sul ghiaccio.
Ieri mattina il governo ha dato la notizia: «La Difesa e il Ministro Guido Crosetto esprimono i sentimenti del più profondo cordoglio e si stringono in un ideale abbraccio ai familiari e ai colleghi del Caporale Matilde Lorenzi, atleta dell’Esercito e promessa dello sci azzurro». A metà del pomeriggio, la procura di Bolzano ha firmato un comunicato di poche righe: «In relazione al decesso della sciatrice Matilde Lorenzi si comunica che la Procura, su segnalazione dei Carabinieri di Senales, ha aperto un procedimento per atti non costituenti reato. Il Pubblico Ministero competente ha già rilasciato il nulla osta alla sepoltura, atteso che non si ravvisano responsabilità penali».
Non è colpa di nessuno, nessuno ha sbagliato qualcosa. Ma Matilde Lorenzi non c’è più. E adesso se ne vanno in lacrime i compagni dello Sci Club di Sestriere, dove si era allenata per molti anni. Alle cinque di pomeriggio, dalla stanza numero 3, escono i genitori: «Ci terremmo a dire una cosa importante». Sono fianco a fianco. «Matilde ci ha lasciato un compito importantissimo. Matilde con la sua forza e con la sua determinazione, smuoveva le montagne. Non vogliamo che tutto questo passi inutilmente, non vogliamo che fra una settimana resti solo il silenzio. Niente fiori al suo funerale».
Cosa intendete fare?
«Andremo a bussare a tutte le porte. E le tireremo giù, se necessario. Busseremo alle porta di Giorgia Meloni, a quella del Politecnico e di tutti quelli che potranno aiutarci a fare un passo avanti in questo sport per trovare un modo di renderlo più sicuro. Questo dolore dovrà avere un senso. E dovrà essere per sempre».
Pensate a una fondazione?
«Nel nome di Matilde. Raccoglieremo fondi per sviluppare un progetto, andremo a chiedere agli istituti di ricerca, bisogna fare in modo che nessuno debba più morire come è morta nostra figlia».
Quando avete saputo che non c’erano più speranze?
«Alle 3, quando è entrata in rianimazione. Era molto grave. I medici ce l’hanno detto subito. L’edema cerebrale era troppo esteso, tutto era compromesso. Poi è andata in arresto cardiaco, hanno provato per 25 minuti a rianimarla. Noi, almeno, avremmo voluto…».
Cosa avreste voluto?
«Donare gli organi. Perché sarebbe stata Matilde a chiedercelo con forza, sarebbe stato sicuramente un suo sogno. E infatti, abbiamo chiesto ai medici, ma non è stato possibile. Si vedeva già dalla Tac. E questo è un dolore che si aggiunge al dolore atroce che stiamo vivendo».
La procura «non ravvisa responsabilità penali». Che nome si può trovare per definire quello che è successo?
«È stata una fatalità. Ma non possiamo chiuderla qui, con questa parola, e infatti non lo faremo. Perché sappiamo che qualcosa di più si può fare. Per la tecnologia dei caschi, per gli airbag. Questo sarò il nostro compito per il resto della nostra vita».
Matilde avrebbe dovuto allenarsi in Svezia. Ma poi è stato scelto l’Alto Adige. Come mai?
«Perché in Svezia non c’era abbastanza neve. È una cosa normalissima, quella che è successa. Faceva parte della sua vita, questo cambiare programma all’ultimo. Certe volte si decide ventiquattro ore prima. Per gli sciatori è così».
Anche Lucrezia, la sorella maggiore di Matilde, è una campionessa di sci. È un dono di famiglia? Voi siete appassionati?
«Per niente. Non abbiamo mai sciato fino a quarant’anni. Quando abbiamo imparato quel poco che serviva per andare a vedere le ragazze all’arrivo. È iniziato tutto sulle montagne piemontesi, vicino a casa. Ci hanno detto subito che Matilde aveva talento. Noi abbiamo chiesto consiglio, e così siamo arrivati a Sestriere».
Che ragazza era Matilde?
«Un gioiello. Aveva un fisico pazzesco, statuario, che tendeva a nascondere. Ma contava ancora di più il suo modo di pensare. Era determinata, fortissima. Era curiosa. Leggeva romanzi, anche in inglese. Era stata in America, era appassionata di viaggi. Adorava cucinare. Si era iscritta a Psicologia. E in tutto questo, aveva vinto una medaglia d’oro, anche se pochi in quel momento si erano interessati a lei. Ma questo non le importava. Non amava mettersi in mostra. Amava le montagne, la libertà. Era fatta così».
Parlava spesso della velocità e della paura della discesa. Cosa diceva?
«La sentiva, l’effetto del suolo sugli sci. Ne era attratta. Tutto il contrario di come guidava l’auto, dove è sempre stata estremamente prudente».
Come viveva l’avvicinarsi delle gare?
«Con la bramosia di mettersi in pista e dimostrare quanto si era allenata per tutta l’estate. Aveva fatto solo quindici giorni di vacanza. Poi ghiacciai, l’Argentina, Ushuaia, ancora discese, altri allenamenti. Si stava preparando con grandissima determinazione. Era carica. Era felice di quello che stava facendo. Stava realizzando il suo sogno».
Mentre i genitori parlano, continuano a ricevere altri abbracci. Sono ragazze sciatrici. Ecco il presidente della Fisi, Flavio Roda. Sta venendo buio, ed è la prima sera senza Matilde Lorenzi. Il suo mondo si è spento, lo terranno acceso. La madre si avvicina e sussurra: «Dite ai ragazzi di volersi bene. Devono rispettarsi di più. Devono prendersi più cura di loro stessi, nella testa».