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La fotografia come racconto (di storie, di stati d’animo, di ispirazioni, di passioni). E non una semplice questione di scatti che (per quanto bellissimi) possono fermare soltanto un attimo tra i tanti attimi di una vita. La mostra che si apre il 10 ottobre al Palazzo Reale di Milano riporta in primo piano la straordinaria contemporaneità di Ugo Mulas (1928-1973). Curata da Denis Curti, direttore di «Le Stanze della Fotografia» a Venezia, e da Alberto Salvadori, direttore dell’Archivio Ugo Mulas, la rassegna mette in scena la filosofia di questo fotografo autodidatta, una filosofia così riassunta dallo stesso Mulas: «Al fotografo il compito di individuare la sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità».
Quella che Ugo Mulas avrebbe elaborato nella sua (breve) esistenza appare, dunque, un’idea di fotografia totale che assomiglia alla performance intesa come espressione che presuppone un rapporto intimo tra artista e soggetto. Lo stesso rapporto basato su un coinvolgimento reciproco che Mulas riuscirà di volta in volta a stabilire con artisti (Giorgio de Chirico, Roy Lichtenstein, Andy Warhol), architetti (Vittorio Gregotti, Gio Ponti, Gae Aulenti), scrittori-poeti (Dino Buzzati, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo), attori- registi (Giorgio Strehler, Eduardo de Filippo, Totò).
Nato a Pozzolengo, nel Bresciano, il 28 agosto 1928, dove il padre, contadino, si era trasferito dalla Sardegna, Ugo Mulas troverà il laboratorio ideale per concretizzare la sua operazione fotografica nella Milano degli anni Cinquanta, dove arriva dopo la maturità: qui, abbandonata definitivamente l’idea di studiare Giurisprudenza, Mulas cominciò ad appassionarsi alla pittura, decidendo di frequentare i corsi serali della Libera Scuola del Nudo all’Accademia di Brera. L’incontro fatale con la fotografia avviene appunto a Milano (la Milano dell’arte divisa tra realismo, astrattismo, concettualità), in quello stesso Bar Jamaica che Luciano Bianciardi descrive nel suo libro La vita agra come il Bar delle Antille: «Ero uno studente, bivaccavo quasi sempre — racconta lo stesso Mulas — in quella specie di caffè che era allora il Jamaica, una latteria dove si riunivano dei pittori. Qualcuno m’ha prestato una vecchia macchina e mi ha detto: “Un centesimo e undici al sole, un venticinquesimo cinque-sei all’ombra” (i tempi dello scatto, ndr). E io, con un’enorme diffidenza, ho preso in mano questa macchina».
Lo stretto rapporto tra Ugo Mulas e l’ambiente milanese costituisce il filo rosso della mostra a Palazzo Reale, traducendosi nell’iniziativa diffusa «Ugo Mulas in città» che racconta il lavoro di Mulas attraverso l’esposizione delle sue opere nei luoghi, nei musei e nelle istituzioni che maggiormente hanno influito sulla sua vita di artista (il ritratto di Joan Miró scattato nel 1963 in una sala del Poldi Pezzoli accanto al Ritratto di Dama del Pollaiolo). «Quello di Mulas — precisa Denis Curti — non è mai un semplice approccio documentaristico. Nella sua fotografia c’è tanta osservazione, tanta concentrazione, tanta minuzia. Mulas evita i ritratti canonici, i bei ritratti, le foto di cronaca, piuttosto si concentra sul dare un’idea del personaggio in rapporto al risultato del suo lavoro».
Ma le oltre 250 immagini in mostra a Palazzo Reale ripercorrono l’intera produzione di Ugo Mulas: dal teatro alla moda, dai ritratti di artisti internazionali, protagonisti della Pop Art americana, a intellettuali, architetti, e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo, dalle città fino al nudo e ai gioielli. Generoso, inclusivo, sperimentatore, incoraggiante verso tutti, fintamente perplesso, ma solo per lasciare spazio a nuovi sentimenti, geniale, curioso, severo, bello, e non solo perché circondato da tanta bellezza: tante le definizioni cucitegli addosso, definizioni che ancora una volta riassumono la convinzione che la fotografia non fosse mai semplice documentazione, ma piuttosto testimonianza e interpretazione critica della realtà.
«Per lui — spiega Alberto Salvadori — fotografare era sostanzialmente un atto di non intervento. Aborriva l’idea del colpo memorabile. Quello di Ugo Mulas è un lavoro introspettivo dove la ricerca primaria è il senso del reale in opposizione al senso dell’eccezionale. Ciò che veramente importa non è tanto l’attimo privilegiato, quanto individuare una propria realtà; dopo di che, tutti gli attimi più o meno si equivalgono. Circoscritto il proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle “immagini che creano sé stesse”, perché a quel punto il fotografo deve trasformarsi in operatore, cioè ridurre il suo intervento alle operazioni strumentali: l’inquadratura, la messa a fuoco, la scelta del tempo di posa in rapporto al diaframma e infine il clic».
La ricerca di Ugo Mulas (quella ricerca che ha portato alla serie delle Verifiche) mette definitivamente a fuoco le modalità espressive di un linguaggio all’epoca ancora ambiguo, ancora sospeso tra i meccanismi di documentazione tipica del reportage e la libertà creativa degli artisti. Un’evoluzione scaturita dalla convinzione dello stesso Mulas che fosse impensabile passare la vita dietro alla macchina fotografica aspettando la fotografia perfetta perché la fotografia è racconto e non una questione di semplici scatti.
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