l’ANALISI
di Chiara Saraceno
Nei vincoli posti dalla necessità di non aumentare a dismisura il debito pubblico e di far fronte all’emergenza energetica, il disegno di legge di bilancio appare squilibrato a favore di alcune categorie – lavoratori autonomi abbienti (tramite l’innalzamento abnorme a 85000 euro del tetto che dà diritto ad una tassa piatta del 15%), lavoratori anziani, per lo più maschi, con una buona storia contributiva e buona ricchezza pensionistica accumulata (tramite quota 103) – a sfavore di altre: lavoratori dipendenti (che hanno aliquote fiscali molto più alte del 15%), lavoratrici anziane con storie contributive modeste, persone e famiglie in povertà. Nelle misure di sostegno alle famiglie, inoltre, accentua la asimmetria nelle responsabilità di cura tra uomini e donne. Infine, in non virtuosa continuità con i governi precedenti e in parziale contraddizione con quanto dolorosamente appreso durante la pandemia e le previsioni del Pnrr, sotto-finanzia la sanità e fa tagli lineari alla scuola.
L’intervento più dirompente riguarda il Reddito di cittadinanza. Esiste un generale consenso su quali siano le modifiche più necessarie. Le principali riguardano a) la necessità di raddrizzare, anche riducendo l’importo massimo per una persona sola, lo squilibrio – sia nell’accesso sia nell’importo – a sfavore delle famiglie con minorenni, tanto più se numerose, che pure vedono la maggiore concentrazione di povertà; b) la riduzione degli anni di residenza richiesti agli stranieri, che ne esclude una larga parte, con rischi di cronicizzazione della povertà, specie per i minorenni; c) un maggiore coordinamento tra centri per l’impiego e servizi sociali comunali; d) la messa in campo di serie politiche attive del lavoro che, nel caso dei beneficiari del RdC, devono anche tener conto che in molti casi si tratta di persone a bassissima qualifica e/o molto lontane dal mercato del lavoro; e) l’opportunità di ridurre l’altissima aliquota marginale (dell’80% che poi sale al 100%) che colpisce chi, tra i beneficiari, è occupato o trova un’occupazione in costanza di ricevimento del RdC, senza tuttavia riuscire a superare la soglia della povertà,
Nessuna di queste proposte ha trovato ascolto nel governo precedente e tantomeno nella proposta di legge di bilancio, salvo che per la possibilità di cumulare, senza che vengano conteggiati, fino a 3000 euro di reddito da lavoro, purché intermittente o stagionale. Ove non è chiaro perché un reddito da lavoro continuativo, ma insufficiente, invece debba essere conteggiato appieno. Ricordo che tra i beneficiari di RdC non ci sono solo disoccupati, ma anche lavoratori e famiglie di lavoratori e che, secondo i dati Istat, si trova in povertà assoluta il 14% delle famiglie con persona di riferimento operaia o assimilata, a dimostrazione che non sempre avere una occupazione è sufficiente a proteggere sé e la propria famiglia dalla povertà assoluta, ovvero dalla impossibilità di consumare un paniere di beni essenziali. Nella legge di bilancio si stabilisce che il RdC andrà ad esaurimento nel 2023 in vista di una o più nuove misure previste a partire dal 2024, il cui unico tratto chiaro, per ora, sarà la distinzione tra chi riceverà un sostegno al reddito e chi invece, in quanto teoricamente “occupabile”, sarà avviato a politiche attive del lavoro. Questa distinzione, peraltro, viene anticipata già ora, con la drastica riduzione per costoro della durata del RdC da 18 mesi rinnovabili a 8. Non è chiaro se, tra gli occupabili cui verrà ridotta la durata del RdC, vi siano anche i già occupati, che ciononostante sono poveri .
In effetti il concetto di “occupabile” è molto generico, poco utile per mettere a punto politiche efficaci. Mette insieme ventenni e ultracinquantenni, persone con la sola licenza media e (pochi) laureati, persone che hanno perso da poco il lavoro e persone prive di occupazione da svariato tempo, persone che vivono in contesti ad alta e a bassa domanda di lavoro. Questa riduzione drastica e lineare lascerà prive di protezione moltissime persone (l’Istat ne stima 846 mila), non per loro colpa o perché non si sono date da fare, ma perché non hanno trovato collocazione, o non in modo sufficiente, nel mercato del lavoro. Come testimoniano i dati relativi alle persone coinvolte nella prima forma sistematica di politiche attive del lavoro, il programma Gol, il passaggio dall’essere occupabili all’essere occupati non è facile, neppure per coloro che non sono beneficiari di RdC e che sono stati profilati come “facilmente occupabili”, perché con esperienze recenti di lavoro e con qualifiche teoricamente adeguate.
Non è, inoltre, chiaro, se, in attesa della prossima misura, potranno essere presentate nuove domande, da parte sia di “occupabili” sia di “non occupabili” e se saranno possibili rinnovi. Il tutto in un contesto economico e sociale che fa prevedere non una riduzione, ma un ampliamento dell’area della povertà, a causa dell’impatto dell’inflazione sul costo del paniere di beni essenziali.
La direzione intrapresa dal governo è in contrasto con la proposta di raccomandazione della Commissione europea sul Reddito minimo. Questa, infatti, oltre a chiedere che non vi siano norme discriminatorie contro gli stranieri e a sottolineare che il sostegno monetario deve garantire una “vita dignitosa”, non distingue tra occupabili e non per quanto riguarda il diritto al sostegno economico, ma, come dovrebbe essere ovvio, solo per quanto riguarda le misure integrative dello stesso: appunto l’inserimento in politiche attive del lavoro (formazione, consulenza personalizzata, accompagnamento, monitoraggio) nel caso dei “teoricamente occupabili”, per aiutarli a trovare una buona (non qualsiasi) occupazione.
Per quanto riguarda il sostegno alle famiglie con figli, l’intervento più sostanzioso consiste in un aumento selettivo (del 50%) dell’assegno unico per tutti i neonati, limitatamente al primo anno di età e per i nuclei con tre o più figli per ciascun figlio di età compresa tra uno e tre anni, per famiglie con Isee fino a 40.000 euro. È chiaro e apprezzabile l’intento di sostenere le scelte di fecondità. È tuttavia dubbio che un aumento limitato ai primissimi anni di vita costituisca un incentivo sufficiente, dato che i figli hanno la curiosa caratteristica di rimanere a carico a lungo (e in Italia più che altrove), comunque ben oltre i tre anni, e soprattutto di costare di più man mano che crescono. La maggiorazione riservata alle famiglie con tre figli, inoltre, dal punto di vista dell’incentivo alla fecondità accentua un difetto della legge che ha istituito l’assegno unico, ovvero la presunzione che le difficoltà a fare un figlio in più incominciano dal terzo in poi, mentre i dati mostrano che riguardano già il secondo, e il ritardo con cui si ha il primo figlio. L’unica motivazione per concentrarsi sulle famiglie con tre o più figli minorenni non può essere di tipo demografico, ma economico: sono quelle più a rischio di povertà. Non va trascurato, inoltre, il fatto che questo aumento doppiamente selettivo indebolisce ulteriormente la dimensione universalistica dell’assegno unico, già ora poco più che simbolica, stante che la quota base, indipendentemente dell’Isee, è pari a 50 euro.
Più discutibile è l’aumento all’80% della retribuzione dell’indennità del congedo genitoriale (ora ferma al 30% e solo per i primi sei mesi) per un mese, da prendere entro i primi 6 anni di vita del bambino e limitatamente alla madre. Ciò è in netto contrasto con l’obiettivo di incentivare la parità tra padri e madri nella cura dei bambini, un obiettivo che faciliterebbe le scelte di fecondità più della rigida divisione dei ruoli che invece questa misura sembra voler rinforzare. È auspicabile che, non potendo, per motivi di bilancio, estendere la maggiorazione a tutto il periodo di congedo genitoriale, il parlamento modifichi questo articolo, vuoi lasciando ai genitori la libera scelta su chi fruisce di questa opportunità (o anche di dividersela tra loro), vuoi invece utilizzando quei fondi per allungare il congedo di paternità oggi ridicolmente basso (10 giorni, a fronte delle 16 settimane della Spagna).
Anche la rimodulazione dell’opzione donna rafforza una asimmetria di genere nelle responsabilità di cura, allo stesso tempo introducendo una discriminazione a sfavore degli uomini. Personalmente sono stata sempre contraria a questo istituto, perché sotto forma di un privilegio in realtà rende molto costoso (a differenza di quota 100 prima, 103 ora) l’anticipo della pensione a donne, per lo più in condizione economica modesta, che spesso lasciano il lavoro per occuparsi della cura non remunerata di famigliari. Questo trade-off tra riduzione della pensione e prestazione di cura (gratuita) è ora reso esplicito e rafforzato dai requisiti introdotti per accedervi, uno dei quali è l’essere (da almeno sei mesi) la principale “caregiver” di un familiare non autosufficiente. Gli altri sono essere in condizione di invalidità civile superiore o uguale al 74% o essere licenziate o dipendenti da aziende in crisi. Al di là della penalizzazione subita da chi fruisce di opzione donna, non si capisce perché non possa avvalersi della stessa opzione un uomo che sia nelle stesse condizioni, cioè abbia uno di questi tre requisiti. O perché non si possa far rientrare il tutto nell’Ape sociale. Discutibile è anche la possibilità di fruire di un anticipo ulteriore in base all’avere avuto uno o più figli. Invece di anticipare l’età alla pensione alle mamme (purché passate al ruolo di caregiver di anziani non autosufficienti), ci si dovrebbe concentrare nel favorire l’occupazione delle madri con buoni servizi, riequilibrio delle responsabilità tra padri e madri e contrasto alle penalizzazioni nel mercato del lavoro.
Aggiungo che l’introduzione del requisito – per le sole donne – di essere caregiver di un familiare non autosufficiente è l’unica misura, se così si può chiamarla, presente nel disegno di legge di bilancio in tema di non autosufficienza, nonostante il Pnrr preveda in tempi brevi la riforma dell’assistenza in questo campo. Entro marzo 2023 il Parlamento dovrà approvare una legge delega. Questa assenza desta preoccupazione.