Elsa Fornero
Una legge di Bilancio (comunemente detta “manovra”) può essere scritta per descrivere una strategia per il futuro oppure per “tenere buoni” i valutatori – dalla Commissione Europea alle agenzie di rating – scontentando il minor numero possibile di elettori. A quest’ultima categoria appartiene la seconda legge di Bilancio predisposta dal governo Meloni: darà un po’ di sostegno all’economia, senza però avviare un percorso sostenibile di crescita, e peggiorerà il debito pubblico. Un equilibrismo non facile, con il rischio non piccolo che la corda si spezzi al primo vento non proprio amichevole.
Per motivare il giudizio, e in termini appena un po’ più tecnici, supponiamo che l’obiettivo principale di una manovra sia, in un periodo di rallentamento economico, l’espansione dell’attività produttiva e, con essa, dell’occupazione e dei redditi nel breve termine (l’anno per cui è scritta, nel nostro caso il 2024).
Si tratta delle cosiddette “manovre espansive” che cercano soprattutto di ovviare a una fase congiunturale negativa, possibilmente difendendo i segmenti sociali più colpiti. In genere hanno connotazioni politiche abbastanza definite: i governi di sinistra tendono ad aumentare la spesa pubblica per beni, servizi e trasferimenti ai cittadini; i governi di destra tendono piuttosto a ridurre le imposte, lasciando che siano coloro che ne beneficiano a decidere come spendere le maggiori risorse finanziarie a disposizione.
In ogni caso, ne risulta un disavanzo di bilancio (o un peggioramento dell’avanzo) giacché difficilmente il maggior gettito fiscale derivante dalla conseguente crescita del Prodotto interno lordo (Pil) compensa il disavanzo creato dalla manovra. Se il Paese è già fortemente indebitato, il peggioramento dei conti pubblici ne aumenta il rischio finanziario, il che si ripercuote normalmente sui tassi di interesse da corrispondere ai creditori, interni e internazionali. Un campanello d’allarme che misura la distanza tra le promesse elettorali e la possibilità di realizzarle quando si hanno responsabilità di governo.
La situazione si aggrava quando il Paese, oltre al rallentamento congiunturale, ha anche evidenti debolezze strutturali che, frenando la crescita, non riescono a impedire che il maggior debito, anziché essere assorbito da un parallelo aumento del Pil, ricada invece sulle generazioni giovani e future, causando problemi di sostenibilità finanziaria e sociale (per esempio, con un esodo dei giovani, e magari di quelli più preparati, verso altri Paesi).
Queste debolezze strutturali sono in Italia da tempo conosciute e analizzate ma troppo poco contrastate: un prodotto medio per addetto sostanzialmente fermo da un paio di decenni, che si traduce in salari tendenzialmente bassi e stagnanti; un’occupazione (regolare) troppo bassa, soprattutto tra le donne; una popolazione che invecchia e si riduce ormai anche visibilmente; divari di benessere tra categorie, classi di età e aree del Paese, che invece di contrarsi si aggravano di anno in anno. Richiedono terapie strutturali, sintetizzabili in investimenti e riforme (non a caso, le parole d’ordine del Pnrr), in modo da agire soprattutto sugli elementi capaci di sciogliere i “lacci e lacciuoli” che frenano la crescita, ossia capitale umano (anche nella pubblica amministrazione), tecnologia e innovazione, voci di spesa che hanno una doppia valenza: nel breve periodo alimentano la domanda interna mentre nel medio periodo aumentano la capacità produttiva e la competitività del Paese, per sostenere anche la domanda estera.
Questa è oggi la situazione dell’Italia ma la risposta del governo non va nella direzione appena indicata, o ci va troppo debolmente. La bozza pubblicata ieri – verosimilmente non definitiva rispetto al documento che approderà a giorni alla Camera – non evidenzia infatti scelte strategiche chiare di politica industriale, politica dei redditi, del lavoro, dell’istruzione, anche perché si basa in larga misura su provvedimenti finanziati soltanto per il prossimo anno, con un’implicita ipoteca sulle risorse future perché essi non potranno semplicemente essere cancellati negli anni a venire.
Paradossalmente, soltanto sulle pensioni l’indirizzo del governo sembra lasciare pochi dubbi, facendo intendere con chiarezza ciò che diversi ministri evitano di dire e che altri ministri hanno volutamente trascurato o travisato negli anni passati: ossia che con l’impoverimento dei decenni passati e la demografia che ci attende (e che il governo si guarda bene dal cercare di correggere anche ampliando i flussi migratori in entrata) nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile.
La manovra segna così un graduale riavvicinamento alle regole del 2011, tacitamente dimostrando che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale, che è la casa comune delle generazioni oggi anziane, di quelle meno giovani fino a quelle che (sperabilmente) verranno. Una prudenza che contrasta con la sconsideratezza degli anni passati. Se le correzioni alla riforma del 2011 si fossero limitate ad aiutare le categorie più disagiate e fragili (come fatto con Ape sociale, opzione donna e lavori usuranti e gravosi) e le risorse liberate fossero state spese in istruzione, sanità, tecnologia e infrastrutture digitali forse oggi il Paese tutto starebbe un po’ meglio. E anche la legge di Bilancio avrebbe potuto essere impostata su binari più solidi.