Il messaggio di Giorgia Meloni in occasione del giorno della memoria, «non cadano nell’oblio la malvagità del disegno criminale nazifascista e la vergogna delle leggi razziali», con la condanna esplicita del nazifascismo che un anno fa era mancata, ha l’obiettivo di dimostrare l’adesione della premier alle parole ben più forti pronunciate il giorno prima da Sergio Mattarella al Quirinale. Ma tra i due interventi c’è una distanza che rivela molte cose.
La distanza si chiama Costituzione. La Repubblica non ha mai lasciato cadere nella dimenticanza la memoria delle leggi razziali, come dimostra la Carta fondamentale che fin dai princìpi fondamentali, all’articolo 3, proclama l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge «senza distinzione di razza». Una precisazione che nel 1948 poteva apparire scontata, se non fosse che dieci anni prima non solo il re e il duce avevano promulgato la legislazione del disonore, ma importanti intellettuali, scienziati, demografi, psichiatri avevano firmato il manifesto della razza dove si leggevano frasi come queste: «È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del capo il richiamo ai concetti di razza».
Sembrerebbe una parodia di Corrado Guzzanti, ma era l’inizio della tragedia epocale più grande che ha diviso il paese per generazioni, fino a noi. Erano parole ispirate dal capo in persona, pubblicate nell’estate 1938 dalla rivista “La difesa della razza”, di cui fin dal quarto numero fu segretario di redazione il giovane Giorgio Almirante. Quando si nega la possibilità di intitolare una via ad Almirante si evita esattamente il pericolo segnalato ieri da Meloni: l’oblio di quella vergogna, delle «infami leggi razziste», come ha detto Mattarella. La Costituzione è la garanzia che non ci sia la dimenticanza del passato.
E qui la questione si fa più attuale. Perché quel che manca nella proposta di riforma Meloni-Casellati non è soltanto la previsione dei contrappesi al futuro capo (o capa), il premier eletto direttamente dal popolo. Manca soprattutto il riconoscimento della natura della Costituzione entrata in vigore 76 anni fa. Non è solo un insieme di regole che si possono modificare, come prevede la stessa carta, ma è la nostra dichiarazione di identità, il fondamento di un’identità democratica che mai gli italiani avevano conosciuto nella loro storia. Oggi la democrazia è in crisi, in tutto il mondo occidentale. I partiti sovranisti o populisti, ma sarebbe più corretto definirli nazionalisti, esaltano la nazione, e con essa le radici, le tradizioni, il suolo, il sangue, come qualcosa di dato per sempre, fuori dalla storia. La nazione diventa una ideologia, separata dalla realtà, scissa dai processi storici: una nazione senza aggettivi, senza l’aggettivo democratico. Per questo Putin, Erdogan, ma anche Orbán, si agganciano a modelli antichi di millenni per legittimare il loro potere presente. La Costituzione italiana non è un testo dogmatico, è a sua volta figlia di una storia, della nostra storia, di un popolo diviso, di memorie divise. Ma proprio per questo rappresenta l’unico tentativo di costruire quell’identità nazionale di cui gli italiani sono stati privi.
Chiuderla in una parentesi, come la riforma del premierato vorrebbe fare, significa abbracciare una ideologia nazionalista che include alcuni e esclude altri. Il bipolarismo di qua o di là fondato da Silvio Berlusconi trent’anni fa si arricchisce di una nuova divisione: tra gli italiani veri, i patrioti, e i non-italiani, gli stranieri in patria, gli alieni.
Tra i nemici della patria ci sono i magistrati che applicano la Costituzione, i giornalisti critici anche in contrasto con gli interessi del loro editore, le opposizioni. Chi vuole contrastare questa narrazione, come la segretaria del Pd Elly Schlein, ha un lavoro in più da fare. Non soltanto opporsi a una pessima riforma costituzionale, non solo uscire dall’immagine della sinistra Ztl in cui si è rinchiusa negli ultimi anni, quella borghesia dolciastra e delle buone maniere, ma dimostrare di saper riprendere un contatto, un rapporto di ascolto con il popolo, il popolo concreto delle liste di attesa e del lavoro sottopagato e non l’immaginaria nazione dell’orgoglio italiano costruita, ancora una volta, dall’alto di un potere politico e mediatico che vorrebbe chiudere la Costituzione in un armadio, nell’oblio.