La democrazia ha i suoi nemici. Esterni, ma anche e forse soprattutto interni. Fra questi, l’inerzia, la paura e la rabbia sono non soltanto pericolosi ma anche sempre più presenti e circolanti nelle società occidentali. E non è un caso che il presidente Mattarella nel suo ruolo di suprema autorità del Paese ne abbia parlato esplicitamente nel contesto dell’assemblea annuale di Confindustria. È stato, il suo, un intervento, ancora una volta, pedagogico, fondato sopra una precisa idea di democrazia: il regime politico che richiede l’uguale rispetto delle regole a tutti i cittadini perché solo attraverso di esso si può realizzare una convivenza civile.
Regole razionali, ovviamente, ovvero leggi prodotte con le procedure della rappresentanza, che garantiscano il raggiungimento dell’obiettivo di una moderna democrazia: la sicurezza in senso onnicomprensivo, ossia quel pieno sviluppo della persona che a norma di Costituzione la repubblica deve realizzare. E quindi, certo, sicurezza sul lavoro – richiamata, ovviamente, dopo i drammatici eventi di queste settimane -, ma anche sicurezza che il lavoro sia una prospettiva di vita aperta a tutti, e che possa garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa. Evidente il riferimento al lavoro povero e al salario minimo: ma quali che siano le opinioni politiche al riguardo diverse, e oggetto di legittima dialettica – Mattarella ha voluto ricordare la cornice di civiltà democratica entro cui che questi problemi vanno inquadrati e risolti. Una cornice nella quale si muove tutto il sistema economico, che non può essere un “capitalismo di rapina” ma deve rispettare i parametri umanistici e personalistici fissati dalla Carta, pur manifestando liberamente le proprie energie. “Economia civile”, dunque, in grado di accompagnare una società verso il benessere collettivo e non solo verso il profitto di pochi.
Una democrazia come struttura politica solida, perché voluta e partecipata dai cittadini, che realizza sicurezza in senso pieno proprio perché è capace di sguardo lungo, di concepirsi come un progetto in cui si realizzano le istanze-chiave della modernità: libertà, eguaglianza, solidarietà, sviluppo umano e civile. Una democrazia, quindi, non occasionale ma resiliente, che resiste alle crisi e alle contraddizioni – inevitabili in una istituzione esposta alla storia -, e supera le difficoltà e le contingenze con l’energia di tutti. La rinascita del Paese dopo la sconfitta bellica è stata giustamente ricordata dal Capo dello Stato come esempio: la democrazia è la forma politica che si fonda sulla fattiva speranza, non sulla disperazione, sul conflitto produttivo e non sulla inerzia e sulla passività. Ilrichiamo di Mattarella a Roosevelt, alla sua affermazione sull’unica paura che si deve avere – la paura di avere paura -, è un messaggio positivo, che esorta i cittadini a una meditata fiducia in se stessi come precondizione e come salvaguardia della democrazia.
Che ha, appunto, come nemici interni, la presunzione nazionalistica e la iattanza identitaria (l’opposto della fiducia in sé), spesso intrecciate al loro rovescio, la paura (l’opposto della speranza). La paura non è ingiustificata – le difficoltà dell’economia, la situazione internazionale, non sono rassicuranti: le preoccupazioni sono condivise da ogni persona pensante e responsabile – ma se alimentata ad arte è destinata a rovesciarsi in impotenza, in panico, o in rabbiosa ricerca di un capro espiatorio. Cioè a generare o passività – che espone un popolo alle lusinghe dei demagoghi populisti – o violenza: in entrambe le ipotesi, spesso collegate fra loro, si può essere certi che i problemi reali che hanno generato la paura non vengono individuati né risolti. E, specularmente, si può stare certi che la democrazia è messa a rischio: la sicurezza non è più questione di sviluppo della personalità, ma diventa guerra (presentata come “difensiva”) contro qualcuno – di solito contro un nemico immaginario: le “guerre culturali” vanno quasi sempre fuori bersaglio, ma le logiche della guerra stravolgono sempre la democrazia -.
Mattarella ha criticato i seminatori di paura: cioè quei politici che dalla paura e dalla rabbia prendono i voti, e che con la paura non solo vincono le elezioni ma anche provano a governare.
Difficile non pensare a quei politici che chiamano alle armi i cittadini per difendere qualcosa o qualcuno da qualche nemico – ultimamente perfino Dio è stato inserito nell’elenco dei bisognosi di difesa, il che, se preso sul serio, trasformerebbe la lotta politica in una crociata contro il Male – quando non ottengono risultati soddisfacenti nell’azione pratica di governo. Così che quella che sembra una forte proposta politica, una “visione”, si rivela in realtà un esorcismo, un tentativo di alzare i toni dello scontro politico per pagare con la propaganda il debito di concretezza contratto con i cittadini al momento del voto. Una mossa dettata anch’essa da paura?
Come che sia, è certo che governare agitando la paura è un’attitudine regressiva. La sfida davanti a cui oggi si trova il ceto politico democratico è proprio di prendere spunto dalle pur severe difficoltà del presente per costruire una realistica speranza per il futuro.