Non c’è dubbio sul fatto che, ormai da molti anni, l’unico vero collante del centrodestra è il potere. I tre partiti principali stanno insieme perché il vincolo di coalizione funziona nelle urne e il sistema elettorale offre un netto vantaggio strategico sugli avversari. Non c’è altro. Da quando è caduto l’ultimo governo Berlusconi nel 2011, il centrodestra — ormai pochissimo centro e moltissima destra — non ha più una visione e una direzione condivise. L’aspra contesa per garantirsi la primazia dopo il declino del Cavaliere ne è la prima ragione: prima Matteo Salvini poi più proficuamente Giorgia Meloni si sono portati in testa al gruppo, ma né l’una né l’altra leadership hanno raggiunto la solidità e l’intangibilità dell’era berlusconiana. Non può stupire.
Quando il capo o la capa non sono definiti in partenza, e a guadagnarsi il ruolo è chi di volta in volta prende un voto in più, è difficile che i programmi politici prendano una forma comune. Non esistono priorità condivise. Non c’è lavoro di sintesi. Se il comando è a tempo, un posto di lavoro assediato dall’ansia di rivincita degli alleati — in questo caso, platealmente, quella di Salvini su Meloni — non può esserci un programma unico, a meno di non credere che basti un opuscolo elettorale a simularne l’esistenza. La tassa piatta è nel programma della Lega ma non in quello di Fratelli d’Italia: dunque ora è previsto che si faccia o no? In questo caso il problema è risolto dalla totale mancanza di risorse, ma in generale il governo Meloni funziona così: chi ha prevalso nel voto prova a far valere le sue priorità, nel frattempo chi sta dietro finge di accettare la subalternità e lavora per promuovere la propria agenda e rallentare quella altrui.
Quello che sta accadendo in questi giorni è la prova che governo e maggioranza procedono solo a strappi e tentativi, tra veti incrociati e trappole reciproche.
Improvvisano decreti su materie come sicurezza e immigrazioni sulle quali, in teoria, dovrebbero avere da decenni un manuale d’uso pronto. Sulle riforme istituzionali si lavora con la pala e si profila uno scontro frontale. La Lega, dopo Pontida, rilancia l’introduzione dell’autonomia differenziata come urgenza assoluta e intrattabile (e lo fa, con l’approssimazione tipica di Salvini, invitando a Pontida come ospite d’onore una campionessa del centralismo nazionalista come Marine Le Pen, particolare non sfuggito all’opposizione interna al Carroccio).
Dice la Lega che autonomia e premierato devono marciare insieme. Sottinteso: se si incaglia la prima, succederà anche al secondo. La ministra delle Riforme, la forzista Maria Elisabetta Casellati, annuncia aRepubblica la partenza ufficiale della riforma che dovrebbe portare all’elezione diretta del presidente del Consiglio — altro unicum tutto italiano, non esiste democrazia occidentale con un meccanismo simile — ma spiega che il premierato marcia su un binario parallelo all’autonomia. E fa capire: uno è un percorso blindato, l’altro no. Questa, da mesi, pare anche la posizione di Meloni, che peraltro sul tema è più affine culturalmente a Le Pen che a Salvini, nonostante i pessimi rapporti tra le due leader che hanno in comune da sempre la fiamma nel simbolo.
Si sono rimescolate tutte le carte. Forza Italia è contro Meloni se si parla di tassa sugli extraprofitti bancari, ma è con Meloni e contro Salvini sull’autonomia; sull’immigrazione la Lega contesta e scavalca la presidente del Consiglio, la quale pare contare e fidarsi solo di uno stretto cerchio di collaboratori e familiari, cerchio a occhio non proprio magico. La rivalità interna ha prodotto solo una nuova fiammata estremista: Salvini a Pontida con Marine e presto addirittura con i neonazisti tedeschi di Afd, Meloni con Orbàn e i neofranchisti, sciaguratamente sostenuti con un messaggio pubblico anche prima del recente voto in Spagna.
La rincorsa tra Salvini e Meloni porta l’Italia in mezzo alla feroce e probabilmente inutile competizione tra due famiglie di ultradestra, tutto mentre in Europa si avvia la discussione di dossier decisivi per il futuro della nazione, come direbbe Meloni. Il prezzo di questo folle posizionamento lo pagheranno gli italiani.
In questo momento, se non fosse per la assoluta latitanza di una alternativa, il governo apparirebbe fortemente a rischio. Invece né le incertezze né la fragilità producono effetti concreti, salvo appunto accentuare la sensibilità di Meloni e Salvini davanti ai rispettivi richiami della foresta. Del resto, finché le opposizioni resteranno nella condizione attuale, i due leader del sovranismo all’italiana possono permettersi molto, se non tutto. Nessuno li incalza davvero. Uno prova a far schiantare l’altra, e viceversa.
Difficile prevedere chi avrà la meglio, avanti così l’unica certezza è lo schianto generale.