diAnna Lombardi
Il Palazzo romano alle Quattro Fontane racconta manie e meraviglie di una famiglia
Nel segno di Maffeo, diventato pontefice quattrocento anni fa
Quando il 6 agosto 1623 il cardinale fiorentino Maffeo Barberini, 55 anni, assurse al soglio pontificio col nome di Urbano VIII, i romani fecero festa, immaginandolo particolarmente rispettoso dell’Urbe già dalla scelta del nome. Esultarono pure gli intellettuali, conoscendone la preparazione giuridica e teologica e l’attenzione per arti e scienze: con Galileo Galilei a parlare addirittura di “mirabile congiuntura”, senza immaginare che proprio nel corso di quel pontificato sarebbe stato costretto all’abiura (in un processo cui si arriverà più per motivi politici che religiosi). Esultò la fazione filofrancese che ben lo conosceva, essendo lui stato nunzio a Parigi. Senza per questo dispiacer ai filospagnoli che ancora lo consideravano (sbagliando) privo di vincoli politici. Ventuno anni dopo in tanti avevano cambiato idea sul Papa più longevo del XVII secolo. Nepotista, favorì e arricchì i membri della famiglia ordendo una intricata trama di potere di cui tennero le fila i nipoti favoriti Taddeo, Francesco e Antonio. Nel pieno della guerra dei 30 anni si dimostrò politicamente incapace: perse quasi tutte le guerre che ingaggiò costretto a finanziarle con costanti nuove tasse (tanto che attraverso la statua “parlante” di Pasquino i romani lo soprannominarono «Papa Gabella, dalla barba bella») prosciugando comunque le casse pontificie e fallendo nell’intento di farsi “padre comune” di ogni nazione. Non stupisce dunque – lo racconta il letterato fiammingo Dirk van Ameyden – che tre quarti d’ora dopo l’annuncio della sua morte, dato alle 11.15 del mattino del 29 luglio 1644, la sua statua in gesso nel cortile del Collegio Romano andò in frantumi. Coi nipoti costretti a riparare a Parigi. Dove comunque rimasero poco giacché Innocenzo X gli restituì presto tutto.
Eppure Urbano VIII fu la figura che meglio definì l’era della Controriforma e la cosiddetta età del barocco. Rampollo di una famiglia di mercanti repubblicani e antimedicei che originariamente si chiamava Tafani e aveva come stemma tre fastidiosi insetti – solo un abile operazione direbranding operata da Maffeo trasformò il luogo d’origine, Barberino Val d’Elsa, in cognome e i mosconi in più nobili e laboriose api – respirò nella Firenze dov’era nato quel clima umanistico che poi lo spinse poi a promuovere il suo pontificato come una sorta di nuovo Rinascimento. Innovazione all’insegna della tradizione che lo spinse a confrontarsi costantemente con la figura di quel Costantino che aveva trasformato la Roma imperiale in cristiana. È a quella sua capacità di concepire la cultura in funzione propagandistica, sistema raffinatissimo di rappresentazione del regnante che farà scuola in tutta Europa e troverà il suo apice in Luigi XIV di Francia, che è dedicata la mostra L’immagine sovrana Urbano VIII e i Barberini, allestita fino al 30 luglio proprio nel palazzo fatto costruire alle Quattro Fontane sui resti di una villa Sforza, sperimentalissima opera di Carlo Maderno, Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini. Vero fulcro dell’egemonia culturale dei Barberini, in funzione della loro azione politica e di governo.
Una grande mostra curata da Flaminia Gennari Santori, direttrice delle Gallerie Nazionali di Arte Antica che hanno sede nell’edificio, con Maurizia Cicconi e Sebastian Schütze. Ideata ed elaborata in piena pandemia in occasione del 400esimo anniversario dell’elezione di Urbano VIII. «Una mostra site specific che riporta nel Palazzo opere che non solo si trovavano qui ma furono pensate per questo spazio usato dall’intera famiglia come luogo di rappresentanza del proprio potere. Una dimensione interamente pubblica » racconta Gennari Sartori, guidandoci lungo le sale ricche di opere straordinarie. «Nobili e ambasciatori d’ogni paese venivano ricevuti nel grande salone affrescato da Pietro da Cortona e decorato con arazzi prodotti sempre qui, nel laboratorio realizzato nei pressi. Eminenti studiosi frequentavano la biblioteca del Cardinal Francesco che contava oltre 70 mila volumi. Gli amanti del bel canto si riunivano nel teatro capace di contenere fino a 1000 persone, dove in pratica nacque l’opera. Parate e rappresentazioni in costume si tenevano nei suoi giardini». Spazio di promozione, dunque, ma anche di produzione culturale. Dove fu accumulata un’imponente collezione la cui disgregazione iniziata nel Settecento, culminò nel 1934: quando, per regio decreto, l’Italia fascista concesse alla famiglia di alienare parte dei capolavori fino ad allora vincolati.
Dodici sezioni ospitano 80 opere: per metà parte dalla collezione permanente, mentre le altre arrivano da musei di tutto il mondo e da collezioni private. Il percorso si apre dunque definendo le origini della dinastia, col ritratti di Maffeo attribuito al Caravaggio, e quello anonimo dello zio Francesco, il protonotario apostolico che avviò il nipote alla carriera ecclesiastica e poi gli lasciò i suoi beni. Qui ci sono le prime opere collezionate: ilSacrificio di Isacco di Caravaggio, e ilSan Sebastiano gettato nella Cloaca Massima di Ludovico Carracci, esempi significativi del raffinato e colto gusto del committente. Segue una serie di ritratti di famiglia: i nipoti prediletti e soprattutto la squisita statuetta equestre di Carlo, fratello di Urbano, definita dalla storica dell’arte britannica Jennifer Montagu «il bronzetto più emozionante di tutto il barocco». E se dalla mostra, concentrata com’è sull’aspetto familiare, è quasi completamente assente l’operato Barberini in San Pietro – a parte i disegni del Baldacchino realizzato (insieme ai cannoni di Castel Sant’Angelo) col bronzo della trabeazione del Pantheon, sottrazione che fece affermare al solito Pasquino «Quel che non fecero i barbari, fecero i Barberini» – se ne racconta invece l’uso delle immagini di santi proclamati a scopo propagandistico e diplomatico. Fra cui spicca il dinamico bozzetto della Santa Veronica di Francesco Mochi. E, se un’intera sezione è dedicata alle api volute appunto da Maffeo nello stemma di famiglia, la sala con La morte di Germanico di Nicolas Poussin che arriva da Minneapolis dov’è conservato, iconografia che ebbe grande influenza sui posteri (pensate alGiuramento degliOrazi di Jacques-Louis David), e poi laFornarina di Raffaello già parte della collezione Sforza e dunque acquistata col Palazzo. Ma soprattuttoL’allegoria dell’Italia di Valentin de Boulogne, ilRitratto allegorico di Marcantonio Pasqualini il castrato più famoso dell’epoca, favorito di Antonio, realizzato da Andrea Sacchi. E ancora laVenere che suona l’arpa di Giovanni Lanfranco, posta proprio di fronte al reale strumento noto come Arpa Barberini, descrivono abilmente il gusto Barberini.
Il racconto della passione per l’antichità, l’attenzione per gli studi naturalistici e l’astrologia, la passione per poesia e retorica antica, senza dimenticare il gusto per teatro e feste, trova il suo apice nel salone decorato col Trionfo della Divina Provvidenza affrescato da Pietro da Cortona fra 1632 e 1639, dove sono esposti pure gli arazzi realizzati appositamente per la famiglia fra 1627 e 1679: in mezzo secolo tre serie dedicate alla Vita di Costantino, quella di Cristo e quella di Urbano VIII, che, secondo le occasioni, venivano usati proprio per decorare la sala. « Abbiamo ideato la mostra nel pieno della pandemia » ci dice ancora la direttrice Gennari « che ci ha dato tempo per confrontarci e inedita libertà di pensare. Una lezione che non dimenticheremo » .