l’evento
Fulvia Caprara
Il mondo in bilico sul baratro dell’autodistruzione, dilaniato da conflitti sempre più lunghi e insensati, è il vero protagonista della notte degli Oscar 2024 che, non a caso, si chiude con il premio a Oppenheimer, storia della nascita della bomba atomica destinata a lasciare tracce indelebili nella storia degli uomini. Hollywood non è più un paese per divi, l’urgenza delle questioni internazionali travolge il paradiso della finzione. E’ finito il tempo delle lacrime di gioia, l’unica a versarle è Emma Stone, eroina dissacrante delle Povere creature di Yorgos Lanthimos, gli altri si commuovono pensando alle vittime dei bombardamenti, alla pace inafferabile, ieri e oggi, come ricorda il regista della Zona di interesse Jonathan Glazer, inglese, di origini ebraiche. Il suo discorso, lucido, succinto, non ha niente di festoso. Dalla visione del film, disseminato di riferimenti che legano il passato al presente, le immagini della villa confinante con il lager di Auschwitz dove vive la famiglia di Rudolf Hoss con quelle del Museo dove sono conservati i reperti di quelle atrocità, si esce scossi, costretti a interrogarsi sul processo di «disumanizzazione» che Glazer indica come il pericolo più grande di questa fase storica: «Siamo qui come uomini contrari alla disumanizzazione cui stiamo assistendo in questi giorni. Dobbiamo ragionare rispetto alle scelte del presente e del futuro, non solo guardando al passato. Ci sono persone che stanno compiendo un’invasione che sta avendo un impatto devastante su moltissime persone innocenti. Che siano le vittime israeliane del 7 ottobre o quelle degli attacchi a Gaza, sono tutte ugualmente vittime di questo processo di disumanizzazione».
Le manifestazioni all’ingresso del Dolby Theatre contro i bombardamenti a Gaza, la spilletta rossa appuntata su smoking e abiti da sera per indicare la volontà del cessate il fuoco, il pugno chiuso di Mark Ruffalo che ricorda «su tutto deve vincere l’umanità», sono il corollario di una cerimonia dominata dagli echi del dramma. Il regista di 20 Days in Mariupol Mstyslav Cernov, Oscar per il miglior documentario, esordisce con un paradosso:«Potrei essere l’unico regista nella storia a esprimere il desiderio di non aver mai realizzato il proprio film. Avrei voluto scambiare questo premio con la certezza che la Russia non avesse mai invaso il nostro Paese. Lancio un appello ai russi, per la liberazione degli ostaggi». La storia non si può cambiare, ma Cernov, giornalista dell’Ap, rimasto a filmare gli avvenimenti durante l’assedio della città, si dice convinto che «io, voi, noi tutti, possiamo assicurarci che la trama degli eventi venga corretta e la verità emerga. Che coloro che hanno sacrificato le loro vite non vengano dimenticati, il cinema ha il potere di forgiare ricordi, e i ricordi, a loro volta, forgiano la storia».
Come in una sceneggiatura ben scritta succede che, alle parole di Cernov, segua, più avanti nella serata, nello spazio dedicato alle persone scomparse, la scelta di mostrare, in apertura della sequenza, la foto di Alexej Navalny morto in prigione tre settimane fa. Ognuno ha una ragione per riportare al centro della festa il tema cruciale del momento. Irlandese, e quindi abituato a vivere in una terra di conflitti, Cillian Murphy, miglior attore protagonista, sottolinea i legami del suo personaggio con l’attualità: «Viviamo tutti nel mondo di Oppenheimer, mi piace dedicare questo premio a chi lotta per la pace nel mondo».
L’Academy è lo specchio adatto per rimandare il senso del disagio globale. Così il conduttore Jimmy Kimmel, criticato da Trump per il modo con cui guida il gala, ribatte a caldo senza peli sulla lingua: «Sono sorpreso che sia ancora in piedi. Non è un po’ tardi per stare svegli lì in prigione?». Le preoccupazioni di qualche anno fa su sparizione della sala cinematografica e strapotere di serie e piattaforme sono spazzate via da una nuova certezza. Il cinema riuscirà a sopravvivere dando voce, volti, colori, alle nostre paure più recondite e alla necessità di resistere, raccontando l’orrore della soluzione finale e l’assenza di ravvedimento. L’inventore della bomba atomica prende, tardivamente, coscienza delle sue azioni: «Sono diventato Morte, il distruttore di mondi». Il generale tedesco nell’ultima sequenza della Zona d’interesse, si contorce in un conato di vomito, forse gli effetti dell’aver respirato la cenere dei forni crematori, di sicuro nessun pentimento: «Quell’uomo che vomita – spiega Glazer – è l’orrore reale». Oltre non c’è più nulla, se non il recupero di quella dimensione umana, star imprendibile dei tempi che viviamo.