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5 Agosto 2022Sembra che anche in Italia la politica prenda atto della fine della fine della storia. Si va verso una competizione a tre, come in Francia?
La caduta del governo Draghi è un evento storico. Non perché sia un suicidio collettivo (come sarebbe secondo alcuni), ma perché segna simbolicamente una cesura decisiva, che molti faticheranno ancora a lungo ad accettare. Anche in Italia la «fine della storia» è finita. Qualcosa è radicalmente cambiato, e siamo solo all’inizio.
La fine del governo di unità nazionale ha scatenato reazioni isteriche da parte di giornalisti, intellettuali e politici. È la neoliberal order breakdown syndrome, sindrome da crollo dell’ordine neoliberale: «l’incapacità dell’establishment liberale di accettare, spiegare e rispondere ai cambiamenti politici».
Come ha scritto Mattia Salvia, «la coscienza liberale […] sta avendo un esaurimento nervoso», perché «Mario Draghi era l’ultimo tentativo di riportare in vita l’epoca della fine della Storia. Finalmente entriamo nel presente, nel bene e nel male».
La politica italiana sta rientrando nella Storia, dopo essere stata imprigionata per trent’anni, a fasi alterne, in un falso bipolarismo. Imprigionata a fatica, a dirla tutta, dato che anche nell’era neoliberale l’Italia è rimasta un laboratorio politico che spesso ha anticipato tendenze internazionali.
Destra e sinistra non sono scomparse. Esistono ancora, ma in modo diverso. La politica italiana si sta in qualche modo francesizzando, avvicinandosi a quella «democrazia dei tre blocchi» di cui ha parlato Thomas Piketty in un recente articolo su Le Monde (tradotto in italiano sull’Internazionale). Potrebbe così giungere a compimento quella tripartizione emersa già nelle elezioni del 2013, poi annacquata dalle successive vicende politiche.
Innanzitutto, c’è il blocco liberale: in Francia è costituito da Emmanuel Macron e dai Repubblicani; in Italia si sta agglomerando intorno a un Partito democratico ormai definitivamente centrista.
Vi è poi il blocco di sinistra, che in Francia fa capo alla Nupes (Nuova Unione Popolare Ecologica e Sociale) guidata da Jean-Luc Mélenchon. In Italia, invece, quest’area è ancora divisa da profonde spaccature, sebbene alcuni lavorino per federare il Movimento 5 Stelle, l’Unione Popolare (cofondata dall’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris e ispirata alla coalizione francese) e altri gruppi di sinistra.
Infine, c’è il blocco di destra nazionalista, rappresentato in Francia da Marine Le Pen, Éric Zemmour e Nicolas Dupont-Aignan; in Italia da Giorgia Meloni e Matteo Salvini con Silvio Berlusconi a traino.
È chiaro che, al momento, la «democrazia dei tre blocchi» è più radicata in Francia che in Italia (per questo si è scritto di «francesizzazione» della politica italiana). Inoltre, la forza relativa dei tre blocchi è diversa fra Italia e Francia. Tuttavia, le percentuali possono cambiare in modo ampio e imprevedibile. Quel che più conta è il fatto che la politica italiana è ancora una volta all’avanguardia della sperimentazione, nel bene e nel male.
Infatti, il modello dei tre blocchi all’italiana, pur essendo ancora acerbo, sta già iniziando a svilupparsi lungo direzioni originali, combinandosi a caratteristiche e stili politici di cui il Paese è da anni laboratorio: tecnopopulismo, normalizzazione dei post-fascisti, e via dicendo. Non a caso, l’Italia è stata definita «il Paese del futuro» dagli autori di The End of the End of History (un libro pungente che presto uscirà anche in italiano).
Nel futuro prossimo, questo modello potrebbe essere portato alle estreme conseguenze proprio a Roma. Difatti, mentre in Francia il tabù di Le Pen al governo resiste ancora, in Italia, invece, la destra nazional-populista al potere è l’esito più probabile delle prossime elezioni.
A questo punto, è opportuno esaminare a grandi linee le caratteristiche principali della politica italiana «francesizzata». Ovviamente, qui non si pretende di essere esaustivi. L’obiettivo è tratteggiare i contorni di un nuovo schema interpretativo, più adatto alla fase politica che si sta aprendo, nella speranza che il dibattito si allarghi.
Il blocco liberale in Italia si sta compattando attorno al Partito democratico, che raccoglie consensi soprattutto fra la borghesia dei centri urbani e i pensionati. Il Pd storicamente nasce da segmenti politici eredi del Partito Comunista e delle fazioni di centrosinistra della Democrazia Cristiana. Dalla sua fondazione nel 2007 ha oscillato più o meno coerentemente intorno al centrosinistra, ma ora, dopo anni di esitazioni, si sta posizionando risolutamente al centro.
Per bocca del segretario Enrico Letta, il Pd ha abbracciato esplicitamente la cosiddetta Agenda Draghi, ha chiuso al Movimento 5 Stelle e ha aperto a Carlo Calenda, già ministro dello sviluppo economico nei governi Renzi e Gentiloni e oggi leader del partito liberista Azione.
Finalmente, il discorso liberale sta trovando un’area di riferimento più coerente, verso cui stanno convergendo anche i centristi fuoriusciti da Forza Italia, come gli ex fedelissimi di Berlusconi Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna.
In tutto questo, Draghi sembra poco propenso a tornare in campo. Anzi, forse neppure i suoi più strenui sostenitori lo desidererebbero, consci del disagio che il «Migliore» prova nelle selve della «politica politicante» (un disagio ben illustrato da Piero Ignazi e Mario Ricciardi sulla rivista del Mulino).
Più che altro, Draghi viene agitato dai liberali come un «santino», padre nobile di un’area politica che, almeno a parole, fa della moderazione, della serietà istituzionale e del principio di competenza i suoi capisaldi. A tal riguardo, è emblematico un recente tweet di Letta, che ha descritto icasticamente la caduta del governo come un «tradimento dell’Italia».
Ma il blocco liberale ha un tallone di Achille: la coesistenza fra liberisti (area Calenda-Bonino e alcune frange del Pd) e liberal-progressisti (il resto del Partito democratico). Questa divisione già prefigura un possibile scontro all’interno dell’area, che potrebbe vedere contrapposti da una parte i sostenitori della vecchia tecnocrazia neoliberale e dall’altra i fautori di un nuovo dirigismo green con sfumature progressiste (più coerente con la fase “neostatalista” che si sta aprendo). Ironia della sorte: il più saldo trait d’union fra queste due fazioni è, per esperienza politica e storia personale, proprio Mario Draghi.
Per quanto riguarda invece il blocco di sinistra, in Italia esso è chiaramente più debole che in Francia. Stretta tra due fuochi, quest’area fa fatica a coalizzarsi. A cercare di mettere insieme i cocci di una sinistra dispersa è oggi soprattutto l’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, secondo il quale Letta e Meloni «sono facce di un potere che abbiamo già conosciuto e che ci ha portato in questo baratro sociale, economico, lavorativo ed ambientale. Oltre che in guerra. Sono i distruttori della sanità pubblica e dei diritti fondamentali del nostro paese».
De Magistris, fra i promotori della piattaforma «Verso l’Unione Popolare», mira a coinvolgere in una coalizione di sinistra l’ex premier Giuseppe Conte e ciò che resta del Movimento 5 Stelle. Questo obiettivo, però, si scontra con due grandi ostacoli.
Il primo è rappresentato dalle esitazioni del Movimento 5 Stelle, che sembra voler correre in solitaria: una scelta che rischia di trascinare definitivamente nel baratro ciò che ne resta. Il secondo ostacolo è invece costituito da alcune frange della sinistra, che parrebbero più preoccupate di preservare la propria identità ideologica che di lottare concretamente per il potere politico.
Rispetto ai liberali e alla sinistra, la destra appare molto più compatta. Ne è ormai alla guida Giorgia Meloni, forte dei sondaggi secondo i quali il suo partito (Fratelli d’Italia) sarebbe ormai la prima forza politica del Paese. Come ha sottolineato David Broder sul New York Times, Meloni ha lavorato a lungo, «ancor più di Le Pen», per «affermare le credenziali mainstream del suo partito». La leader di Fratelli d’Italia, infatti, ha preso pubblicamente le distanze da gruppi neofascisti come Forza Nuova e ha ribadito il suo atlantismo ed europeismo (seppur nella versione “Europa delle nazioni”).
Da un punto di vista materiale, alla radice della crescita di Meloni c’è la lunga stagnazione dell’economia italiana. Lo scontento diffuso fra la classe media e i ceti popolari ha spinto molti ad abbracciare il messaggio nazionalista di Fratelli d’Italia, le cui proposte economiche si concentrano sui tagli alle tasse e sul sostegno alle imprese.
Andrea Capussela ha ben descritto questa situazione in un articolo sul Financial Times:
Di fronte a un’economia con poche grandi imprese, la cui produttività è paragonabile a quella delle omologhe tedesche, e una massa di piccole aziende la cui produttività è molto più bassa, la coalizione di Meloni probabilmente risponderebbe ai problemi proteggendo ulteriormente le piccole aziende e sovvenzionando gli amici. Per un dibattito sulle virtù della concorrenza, sulla distinzione tra le auspicabili pressioni del mercato e gli eccessi della globalizzazione, o sul sistema di welfare universale che dovrebbe accompagnarla, l’Italia dovrà attendere altre elezioni.
E c’è di più. Le politiche economiche della destra non risolverebbero neppure lo scontento dei suoi sostenitori, poiché non andrebbero davvero alla radice dei problemi economici che ne alimentano il disagio socioeconomico. Vi è dunque un ulteriore rischio: che il fallimento delle politiche economiche della destra generi un’ennesima ondata di disillusione ed estremismo, con esiti imprevedibili.
Liberali, nazionalisti, sinistra: con l’importazione della «democrazia dei tre blocchi» la politica italiana si sta francesizzando, almeno in parte. Proprio per questo, è ancor più vero ciò che ha scritto David Broder: «Se si vuole sapere cosa può riservare il futuro, [l’Italia] è un buon posto dove guardare». Anzi, oggi è il posto a cui prestare maggiore attenzione.
*Alessandro Bonetti (@brettonwooder) è analista e commentatore economico-politico. Laureato all’Università Bocconi in Economia e scienze sociali, collabora con Il Fatto Quotidiano e The Submarine ed è fra i coordinatori di Kritica Economica