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Il cibo è politica, la tutela inizia nei territori
Festival del Gusto
di Lorenzo Cresci
Dalla sovranità alimentare – promossa, se non si trasforma in autarchia, alla qualità del cibo, veicolo italiano verso l’internalizzazione di un prodotto che diventa brand, quello del cosiddetto Made in Italy. Si parte così, tra cibo e politica, perché il «cibo è politica», come sottolinea in direttore della Stampa, Massimo Giannini, aprendo la due giorni di “C’e più Gusto a Bologna”, il primo evento organizzato dall’hub del Gruppo Gedi dedicato al mondo dell’alimentazione, del vino, dei viaggi e in svolgimento a Palazzo Re Enzo, nel cuore di Bologna.
Ci sono da studiate territori e qualità, modelli di sviluppo, ma anche esempi pratici. Come il “Modello Alba”, di cui è portavoce un albese doc come Alberto Cirio, presidente della Regione Piemonte, che sul palcoscenico di Bologna ricorda «la terra della malora», la povertà del dopoguerra in quella porzione di Piemonte – Langhe, Roero e Monferrato – e di una popolazione chiamata a scegliere tra l’abbandono delle terre verso zone più ricche, e quindi un lavoro, oppure provare a resistere. Una resistenza dopo la Resistenza, che oggi forse chiameremo in modo un po’ abusato resilienza. «Che noi invece chiamiamo Michele Ferrero – dice il governatore Cirio – perché è stata la sua visione di industria a rilanciare queste terre: ricorso alla manodopera locale, quei bus marroni che vanno nelle case dei lavoratori e li riportano lì alla fine del turno di lavoro, e che sono persone che riescono quindi a rimanere nelle loro case, e a mantenere vivo il proprio appezzamento di terreno, il proprio vigneto». Industria e agricoltura che si incontrano, e funzionano. Come conferma Riccardo Illy, che con il suo Polo del Gusto ha rilanciato industrie alimentari nel segno del rispetto, della storia, della filiera. E di rispetto e di etica parla lo chef più stellato d’Italia, Enrico Bartolini: «Da noi non c’è agonismo e se c’è è un concetto sbagliato. Non è il mondo del calcio, non dobbiamo vincere per forza. Noi dobbiamo creare empatia con chi ha scelto il nostro ristorante e si aspetta di coronare quel desiderio che si è creato». A proposito di modelli, anche Bartolini ama parlare di quello piemontese, «dove ci sono zone in cui i bimbi nascono adulti perché codificati e disciplinati sul cibo fin da piccoli». Modelli e tradizioni. Come quelli bolognesi, di cui è portavoce – e padrone di casa – il sindaco Matteo Lepore. «È un percorso da costruire, quello dell’enogastronomia intesa come opportunità di turismo e non può prescindere dal partire dalla base, per risalire l’intera filiera. La nostra città va presa a morsi per poterla vivere. Abbiamo ragionato sull’area metropolitana, siamo usciti dai confini comunali, oggi il cibo è come la musica, per noi, arrivano da tutto il mondo per assaggiarci, per frequentare corsi di cucina o per fare la sfoglina. Siamo partiti dagli artigiani del cibo, ci siamo ripensati come città contadina». La terra, quindi, quella da rispettare e citata anche da papa Francesco, cui fa riferimento Sara Roversi, l’imprenditrice e fondatrice del Future Food Institute, oggi un’istituzione nel legare tradizione e innovazione, partita dal capoluogo romano, capace di arrivare nel cuore di Tokyo, senza dimenticare il Cilento.
A Bologna per due giorni scende in campo quindi l’Italia del cibo. Quella, dice Roberta Garibaldi, presidente di Enit, che «oggi attira turisti da tutto il mondo che vogliono visitare città e scoprire monumenti, ma poi sedersi a tavola o visitare un’azienda produttrice. Lo fa il 94% dei turisti che ospitiamo». Quasi il massimo raggiungibile, insomma. Volendo si può conquistare ancora quel sei per cento e avere a quel punto in mano un full d’assi. «Un patrimonio ricco, inestimabile, quello dell’enogastronomia, ma da amministrare», dice Giannini. Ecco perché il cibo è anche politica.