Dalla biglietteria del Guggenheim alla Biennale L’ascesa dell’artista trentenne di base a New York adesso protagonista al Centro Pecci di Prato
di Maurizio Fiorino
Non è un caso che la prima, grande, mostra istituzionale dedicata al lavoro di Louis Fratino, sia in Italia: con la nostra cultura, in particolar modo quella del secolo scorso, il giovane artista americano ha stabilito una relazione che diventa, inSatura – questo il titolo dell’esibizione al Centro Pecci di Prato – un fil rouge, ma anche una chiave di lettura dell’intero, o almeno larga parte, del suo lavoro. A primo impatto, vedendo la mostra, ci si rende conto che c’è, in Fratino, una sorta di purezza che gli permette di unire, soli o parte di un insieme, ragazzi nudi e fiori, paesaggi e peli pubici, poesie e organi sessuali: sembra fregarsene, l’artista, di cosa sia accattivante e cosa non lo sia, nelle sue tele. Tele che compongono un mosaico in cui, l’universo, sembraappartenere esclusivamente a quei ragazzi che si amano raccontati da Jacques Prévert, ovvero quelli che vivono più in alto del sole, seppure – sorpresa! – in realtà è ai poeti italiani che questo ragazzo nato negli anni Novanta guarda con attenzione e morbosa curiosità. La vicenda di Fratino, se volessimo riassumerla in pochissime righe, è questa: nasce ad Annapolis, nel Maryland e sì, il cognome è italiano: proviene dalla zona del Molise e gli è stato trasmesso dal suo bisnonno, che emigrò negli Stati Uniti all’inizio del Ventesimo secolo. Fratino disegna fin da quando ha memoria e poi, a un certo punto, decide di trasferirsi a New York, dove cerca di sbarcare il lunario accogliendo turisti e strappando biglietti al Guggenheim. Nel tempo libero, continua a disegnare e dipingere e soprattutto arifugiarsi tra gli archivi del museo, dove sfoglia preziosi cataloghi e si innamora, ancora di più, della storia dell’arte. A un certo punto, partecipa a una piccola mostra in una galleria del Lower East Side e coincidenza vuole che quella mostra venga visitata da una critica del Times.
Critica che, come nelle più belle fiabe newyorchesi (ricordate la ragazza del Michingan che arrivò in città con trentacinque dollari?), scrivendone, lo paragona a Freud e Matisse. Tutto il resto, potete immaginarlo, è storia. Ma se c’è una cosa che accomuna il ragazzino del Guggenheim a quello che espone al Pecci, è un approccio all’arte e chissà, forse anche alla vita, dotato di una delicatezza quasi dolorosa.
Satura, in esposizione fino al prossimo 2 febbraio, è stata curata da Stefano Collicelli Cagol, che ha voluto fortemente Fratino nei suoi spazi. « Il titolo ha un’ispirazione ambigua visto che ricorda l’espressione latina lanx satura,ma anche il nome di un piatto a base di vari ingredienti del periodo romano, da cui deriva il genere letterario della satira, opera caratterizzata dall’uso di una varietà di stili e metri. Inoltre, nella lingua italiana» spiega il direttore, «essere saturo significa essere pieno, e ricorda la ricchezza di colori e dettagli che si trovano nei dipinti di Fratino». Insomma “saturo”, nella nostra lingua, è riferito anche a una pienezza e al relativo bisogno di svuotarsi, sia metaforico che letterale. In tal senso, i corpi di Fratino sembrano vivere a metà strada tra la metafora e la letteralità della parola: si accoppiano, si stringono, si svuotano e si divorano a vicenda, mai sazi. Vivono, insomma, in una sorta di No Man’s Land di Nina Berberova. Non si avverte, però, un voyeurismo morboso e neppure sensazionalistico, in queste opere. Viene più a mente, in realtà, Roland Barthes e la sua teoria sul punctum, cioè quel qualcosa, nell’arte, che ci punge: « Le situazioni di intimità di quest’artista non hanno nulla di voyeuristico. Piuttosto, sembrano normalizzare atti di affetto e cura che compiamo tutti nella vita privata e, in tal senso, vengono resi fruibili a chiunque» spiega Stefano Collicelli Cagol.
Per quanto riguarda il rapporto dell’artista col nostro Paese, il curatore lo colloca in un contesto culturale per il quale si sente un senso ideale di appartenenza che permette a Fratino, presente anche all’ultima Biennale di Venezia, di rappresentarsi con maggiore precisione. « In più, questa sua italianità sottolinea un desiderio di bellezza: una bellezza che cerca nei dettagli e in una vita quotidiana che riecheggia un mondo letterario » dice. Nell’opera My Meal, è leggibile il titolo della copertina di un libro, Towards a Gay Communism, che è la prima traduzione inglese di Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli. In altri quadri, riconosciamo un libro dedicato a Domenico Gnoli, una copia anastatica dei numeri della rivistaFUORI!, Vita meravigliosa, la raccolta di poesie di Patrizia Cavalli e il romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari. Ma a parte i libri, i paesaggi urbani (c’è anche il mitico Bar Basso di Milano) e le viste sul Mediterraneo, il rapporto con l’Italia è visto anche in termini di sensazioni e ispirazioni che, « per la loro ariosità, la poesia dei dettagli di vita quotidiana e i giochi di luce, sembrano essere emersi dai versi di Sandro Penna, con una lontana allusione alle atmosfere seducenti e luminose create da Luca Guadagnino nel suo film Call me by your name ».
Fratino, insomma, sceglie frammenti, quadri, poesie, film ed elementi stilistici e li fa suoi, inglobandoli in momenti della sua vita e di quella delle persone che la attraversano. Come ha sottolineatoChiara Portesine nel saggio del catalogo, l’opera A Breeze, giusto per citarne una, riprende il tema degli amanti nudi a letto in una chiave omoerotica, disegnando l’immagine dal film Il Decameron, di Pier Paolo Pasolini. Autori controversi, spesso amati ma anche odiati, con cui l’artista americano, quasi, invita a far pace. Cominciando dal poeta Sandro Penna che, così come Fratino, ha sempre avuto una particolare predilezione per i giovani, spesso protagonisti delle sue poesie. Giovinezza, tuttavia, non solo relegata a un fattore anagrafico ma a uno stato d’animo, a un sentimento di purezza e di libertà. Un canto, in conclusione, al potere della propria innocenza o, più semplicemente citando Penna, a quel sorridere al sole che a volte sembra esplosivo.