L’esercito dello Stato ebraico sospetta che Hezbollah scopra le sue mosse intercettando le comunicazioni dei caschi blu
Il vertice della missione Unifil interpreta in un solo modo il crescendo di atti ostili che da una settimana bersaglia i soldati dell’Onu schierati sulla Linea Blu tracciata dalla costa alle alture del Golan: gli israeliani vogliono «costringerla a ritirarsi» per non avere «testimoni scomodi». Una mossa preventiva, in vista di «pianificazioni future» dell’offensiva in corso in Libano che non ha ancora espugnato le roccaforti di Hezbollah. Difficile leggere diversamente le cannonate contro le torrette di vigilanza o le raffiche contro le telecamere di osservazione, sparate con la consapevolezza che quei proiettili avrebbero messo a rischio la vita dei militari italiani, spagnoli o indonesiani che operano sotto la bandiera delle Nazioni Unite.
Quanto la tensione stesse salendo si è capito già venerdì scorso. Trenta mezzi corazzati israeliani hanno circondato un fortino dei caschi blu irlandesi, chiudendo le strade normalmente pattugliate per verificare la situazione sul campo. La falange di carri Merkava ha trasmesso un messaggio chiaro: «Andatevene!». C’è stato un braccio di ferro con il Palazzo di Vetro, un duro intervento del governo di Dublino e una sfuriata del presidente irlandese Michael D. Higgins ma l’assedio è terminato solo quattro giorni dopo. E c’è il sospetto che il blocco alla base Unp 6-52 sia stato tolto soltanto quando l’esercito israeliano ha concluso il rastrellamento dei miliziani di Hezbollah in tutta la zona.
Probabilmente dietro a questi segnali di fuoco c’è anche l’insofferenza manifestata dai vertici dello Stato ebraico per il ruolo assunto negli ultimi anni dal contingente internazionale, che accusano di non avere impedito la costruzione dei rifugi sotterranei usati per lanciare razzi contro Israele. Lo dimostra il tiro di mitragliatrici e mortai contro l’unico simbolo del dialogo in una frontiera dove non c’è mai stata pace: la palazzina dei “colloqui tripartiti”. Fu una trovata del generale Claudio Graziano, primo comandante del contingente che nell’estate 2006 si è schierato per tutelare il cessate il fuoco faticosamente stabilito dopo tre settimane di bombardamenti a cui è seguito l’assalto di 30 mila uomini delle Israeli Defence Forces. In quella villetta bianca rappresentanti israeliani e libanesi accedevano da ingressi separati sui due lati del confine, poi si sedevano a un tavolo a forma di U senza rivolgersi la parola: ognuno illustrava problemi e formulava proteste al responsabile dei caschi blu, che riferiva alla controparte e mediava. Nelle pause per la sigaretta o per il caffè, sul terrazzo con vista sul mare, spesso le formalità diplomatiche lasciavano però posto a una conversazione diretta, fondamentale per evitare che le crisi degenerassero.
Il baratro di orrore e violenza aperto nella regione dalle stragi jihadiste del 7 ottobre 2023 sembra avere spazzato via ogni prospettiva di dialogo. Israele vuole cancellare tutte le minacce, reali o potenziali, e ristabilire una deterrenza basata sulla potenza della ritorsione. Non vengono fornite spiegazioni, ma nel quartiere generale di Tel Aviv trapela che due sarebbero le considerazioni dietro alla richiesta dal sapore di ultimatum di spostare le truppe Onu cinque chilometri più a nord. La prima è la convinzione che Hezbollah abbia impostato la sua tattica difensiva in funzione delle basi delle Nazioni Unite: le userebbero come una sorta di scudo per organizzare imboscate e trasferimenti di armi. La seconda invece è il sospetto che le comunicazioni radio con cui gli avamposti dei caschi blu trasmettono al comando gli aggiornamenti sull’attività israeliana vengano intercettate dai miliziani sciiti e contribuiscano così alla loro resistenza.
La situazione che si sta creando rischia di mettere in discussione la presenza di Unifil sul terreno: non è in grado di opporsi militarmente a Israele e non è più in condizioni di portare avanti il mandato della risoluzione 1701, limitato al peacekeeping ossia alla tutela della tregua stabilita nel 2016. Travolta dall’ondata dei combattimenti, la missione Onu potrebbe essere obbligata ad abbandonare il Libano. Quello che oggi Israele forse desidera ma che domani potrebbe rendere impossibile qualsiasi soluzione per un controllo internazionale della fascia tra il fiume Litani e il confine. Obbligando il governo Netanyahu a lunga occupazione dei territori da cui vuole scacciare Hezbollah.