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17 Gennaio 2024Dopo la Cassazione
C’è chi sostiene che le sentenze non vanno commentate ma rispettate. Tuttavia non è convincente la contrapposizione tra il rispetto della decisione dei giudici, che pure deve esserci, e lo stigma morale che dovrebbe colpire eventuali commentatori. La sentenza della Corte di Cassazione per la strage di Viareggio va dunque rispettata. Ma l’intero iter processuale, peraltro ancora non concluso, e il suo significato si presta a commenti e riflessioni. La Cassazione, confermando le condanne, ha disposto che la Corte d’Appello di Firenze ridetermini le pene dei condannati — tra cui spicca l’ex Ad di Ferrovie Mauro Moretti — tenendo presenti le attenuanti. Non sono più in discussione le accertate responsabilità degli imputati, al netto dei reati prescritti, ma il quantum delle loro condanne. Eppure l’amaro che anche questo passaggio giudiziario lascia in bocca si mescola con quello sapor di fiele che dal 29 giugno 2009 tormenta i familiari delle 32 vittime del rogo nel quartiere della stazione ferroviaria viareggina. C’è, di sicuro, lo sconforto per una vicenda alla quale manca la definitiva parola fine dopo quasi tre lustri. Così come è certa l’umana, umanissima, aspettativa delusa per pene più severe, ammesso che sia possibile misurare con esse qualcosa di smisurato come la perdita di qualcuno così vicino. Ma c’è soprattutto la percezione insoddisfacente di una giustizia lentissima ad arrivare e che spesso lascia inevasa la richiesta di verità.
Premesso che la percezione è da maneggiare con cura per la sua caratteristica di soggettività, non si può ignorare: non lo si fa con la temperatura e neanche con la sicurezza, indipendentemente dai dati oggettivi. Ma ancora più difficile è nel caso della giustizia, dove la certezza del diritto è affidata a un poderoso complesso di leggi e sanzioni. Né si può chiedere al singolo giudice, per la sua natura terza, di farsene carico. Ma la giustizia percepita esiste. Non a causa di una sentenza, ma della storia intera di una vicenda giudiziaria. Lo sanno i familiari delle vittime del Moby Prince, che dopo più di 30 anni attendono ormai non più sentenze o condanne ma almeno la verità sul disastro nella rada di Livorno, mentre una strada non meno irta di ostacoli attende chi ha perduto una persona cara nel crollo del ponte Morandi a Genova. Non è cinismo riflettere sul fatto che in questi due casi le vittime erano esposte a un rischio per quanto remoto, come quello corso da chi si muove in auto o su una nave. I morti di Viareggio erano nei loro letti, nelle loro case investite dal combustibile in fiamme del vagone cisterna sventrato. Una sorte non dissimile alle troppe morti sul lavoro. E tutto questo rende più profonda la sensazione di una giustizia che potrà sembrare sempre e comunque inadeguata, con il rischio di offrire il destro ai propugnatori di pericolose scorciatoie. Ma l’articolo 27 della Costituzione prevede che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato. Quale pena può svolgere tale compito dopo 15 anni?
Stefano Fabbri
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