A MANCHESTER CON GLI SMITHS: UN ESTRATTO
29 Gennaio 2023E viva la teologia
29 Gennaio 2023Esattamente 15 anni fa, nel 2008, Chris Anderson formulò la tesi secondo la quale con l’avvento del digitale e con le capacità di calcolo dei supercom-puter la teoria sarebbe ormai inutile. Niente di nuovo: da due secoli molti pensatori, anche distanti tra loro, condividono que-sta convinzione. Invece no, tutto il contrario. Allo stesso modo la scompar-sa di Ratzinger , il 31 di-cembre, un mese fa, ha fatto dire a lungo che con lui finiva il Novecento della teologia. Anche qui: tutto il contrario. Ecco perché (in queste pagine e nelle successive)
Maurizio Ferraris
Nei giorni scorsi la mamma di Elon Musk è uscita in un’affermazione che solo l’affetto giustifica: «Non sapevo che sarebbe diventato un genio». In questo caso, la mamma di Musk ragiona per correlazione: mio figlio è diventato ricco, dunque è diventato un genio. Immagino tuttavia che sarebbe stata molto più restia a fare questa affermazione qualora il figlio fosse diventato miliardario vincendo a una lotteria intergalattica. Ma, a prescindere da questo, il fatto che il procedere per prove ed errori, e si sarebbe anche tentati di dire «a casaccio», di Elon Musk gli abbia fatto guadagnare una montagna di quattrini ne fa un uomo fortunato, ma non un genio. Perché un genio, nel senso dello scienziato e non dell’artista, è capace di costruire una teoria che spieghi il perché certe cose accadono, e per inciso sono convinto che ci vorrebbe un vero genio per spiegare i comportamenti di Musk, e che quel genio non è lui.
Fine della filosofia?Credo però che non tutti i lettori siano d’accordo con me, perché c’è un robusto spirito del tempo che soffia in una diversa direzione. Nel 2008, in un famoso articolo apparso su «Wired», Chris Anderson sviluppava la tesi, provocatoria ma di sicuro effetto, secondo cui la massa di dati assicurata dall’ubiqua capacità di registrazione del digitale e la crescente capacità di calcolo fornita da computer ultrapotenti avrebbero reso inutile la teoria. A che pro avvalersi di quelle imperfette scorciatoie in un mondo complesso che sono le ipotesi e i concetti, quando disponiamo di una mappa dell’impero 1:1 e di intelligenze artificiali che possono misurarla in lungo e in largo in pochi secondi? E perché mai dovremmo buttare via il nostro tempo nella ricerca di rapporti causali che spieghino ciò che accade nel mondo, al tempo stesso esponendoci alla possibilità dell’errore quando è molto più redditizio, e intellettualmente molto meno impegnativo, affidare alle macchine la ricerca di correlazioni efficacissime e inconfutabili?
Anderson era probabilmente convinto di descrivere una situazione perfettamente nuova, ma si inseriva in una tradizione vecchia, se non come il mondo, almeno quanto il mondo moderno. In fondo, Immanuel Kant aveva decretato la fine della metafisica, che proponeva di sostituire con una critica della ragione, proprio con l’argomento che la scienza, quella di Francesco Bacone, Galileo Galilei, Evangelista Torricelli, Georg Ernst Stahl e Isaac Newton, si era rivelata capace di organizzare l’enorme e confusa molteplicità dell’esperienza all’interno di principi matematici che permettevano di darle forma e senso. Apparentemente era un elogio della teoria, quello che fece pronunciare a Kant la celebre sentenza secondo cui le intuizioni senza concetto sono cieche, ma in realtà decretava la rinuncia a un’effettiva conoscenza del mondo. Abbiamo i fatti, che però non sono cose in sé, ma cose come appaiono a noi, e abbiamo degli strumenti concettuali per interpretarli. E nulla vieta che prima o poi questi strumenti concettuali si trasferiscano all’interno di una macchina ultrapotente, dal momento che la correlazione tra i fatti e le interpretazioni è un mistero deposto nella profondità dell’animo umano di cui probabilmente non verremo mai a capo.
L’intuizione di Alan Turing secondo cui si possono fare dei calcoli sofisticatissimi senza avere la più pallida idea di che cosa sia l’aritmetica trova fondamento proprio in questa visione. Quanto dire che la teoria è inutile, e soprattutto è inutile quella prassi teoretica per eccellenza che è la filosofia. Da due secoli a questa parte, e con una radicalizzazione nella distinzione fra analitici e continentali nel secolo scorso, l’idea della inutilità della teoria (o a volerla mettere in termini più aulici della morte della filosofia) è stata la convinzione meglio ripartita nel mondo, e, si badi bene, probabilmente l’unico punto su cui analitici e continentali si sono trovati d’accordo. Perché i primi erano convinti che la scienza, ossia il felice impasto fra dati e calcoli che aveva ottenuto così tanti successi, rendesse completamente inutile la filosofia, o al massimo suggerisse alla filosofia di trovarsi un Kindergarten in cui giocare a fare gli scienziati. Mentre i secondi, che condividevano nella vita di ogni giorno la fiducia assoluta nella scienza (che io sappia Martin Heidegger non si è mai fatto curare da un metafisico, ma ha sempre cercato i medici migliori), decidevano che alla filosofia spettava una nuova mansione, quella della critica, della decostruzione, e di un’efficace alternativa alla religione in un mondo che, a torto, si crede secolarizzato.
Se così fosse, tuttavia, fare il professore di filosofia teoretica o occuparsi di aruspicina e cartomanzia non farebbe nessuna differenza. Non mi sento di escludere che per alcuni colleghi sia così, ma per quello che mi riguarda non solo considero questa ipotesi umiliante, ma soprattutto ritengo che sia completamente falsa, e che se c’è qualcuno che si sbaglia è proprio chi decreta la morte della teoria nell’epoca dei big data, proprio come suo padre aveva decretato la morte della teoria nell’epoca delle imprese spaziali, suo nonno la morte della teoria nell’epoca della fisica quantistica, e su su, tornando indietro nella genealogia degli iettatori sino a coloro che avevano decretato, a ogni avanzamento del sapere positivo in un ambito qualunque, la morte della teoria. Sono anche persuaso che ogni epoca ha bisogno di filosofia, e la nostra magari anche un po’ più di altre per il semplice motivo che proprio la sterminata crescita dei dati e la frammentazione dei saperi e delle pratiche che caratterizzano il nostro tempo impone l’assunzione di forti dosi di teoria per poter governare quello che altrimenti sarebbe un caos non solo dal punto di vista conoscitivo (è il minore dei mali), ma dal punto di vista storico e politico, là dove si tratta di decidere che direzioni può prendere l’umanità. Visto che il tema è gigantesco, mi limiterò a fornire in poche parole una descrizione alternativa della situazione tecnologica e sociale che ha potuto generare l’ultima versione del mito della morte della filosofia sotto le specie della fine della teoria.
Umani, macchine, spiegazioni e interpretazioniIncominciamo con l’ontologia della nostra attualità, ossia con lo stato di cose a cui si riferiva il verdetto di Anderson. In effetti, poiché la caratteristica del digitale è registrare tutto ciò con cui entra in contatto, l’umanità è stata investita da un diluvio di dati senza precedenti. Questo diluvio non ha niente a che fare con l’infosfera, ossia con la parte emersa del web, quella a cui accediamo quando cerchiamo delle informazioni o dei servizi, e che, come tale, è l’erede, semplicemente più maneggevole, dei libri, dei giornali e della televisione. La zona critica e decisiva è quella che chiamo docusfera, l’enorme repositorio delle forme di vita umana che per milioni di anni sono scomparse come lacrime nella pioggia, mentre oggi sono registrate, ossia accedono allo statuto ontologico del dato, introducendo nel mondo una infinita varietà di oggetti che prima passavano senza lasciar traccia, o se la lasciavano ciò avveniva solo in forza di un impegno deliberato, e perciò raro. «Johannes de Eyck fuit hic, 1434», scritto sul muro, tra il lampadario e lo specchio, del ritratto dei coniugi Arnolfini, è una scelta che manifesta una chiara volontà testimoniale. Che invece il computer a cui in questo momento sto dettando tenga traccia del luogo e dell’ora in cui parlo non richiede da parte mia alcuna intenzione specifica, l’operazione costa pochissimo, si applica a una quantità di dati che vanno dalla mia geolocalizzazione alla temperatura del mio corpo, alla direzione del mio sguardo, e a tutto quello che ho fatto prima e dopo questa dettatura — tutte queste circostanze infime e immense generano una rivoluzione copernicana che impone più che mai l’imprescindibilità della teoria. Perché se non ci vuole una grande teoria per capire quali fossero le intenzioni di van Eyck, ci vuole qualcosa di ancora più robusto di una visione del mondo ottocentesca per cavare qualcosa di utile da una sterminata accozzaglia di dati che, nella migliore delle ipotesi, appare come un incrocio tra l’enciclopedia cinese di Jorge Luis Borges e la biblioteca di Babele.
Veniamo ora al secondo aspetto, la tecnologia, ossia la potenza di registrazione delle macchine che permette di registrare, poniamo, tutti i colpi di tosse dell’umanità, e la potenza di calcolo che si impegna a trarre un qualche senso da questa baraonda che, vale la pena di rifletterci un momento, sta aumentando sempre di più da due decenni a questa parte, ma sembra del tutto ragionevole immaginare che, in un lasso di tempo non si sa quanto lungo, potrà superare il numero delle particelle che compongono l’universo. Ora, quanto all’universo, nessuno si accontenterebbe di spiegarne il funzionamento facendo ricorso a delle semplici correlazioni, perché a quel punto non ci sarebbe più alcuna differenza tra un astronomo e un astrologo. I miei bisogni pratici possono benissimo venire soddisfatti da principi come «rosso di sera bel tempo si spera», ma sicuramente l’umanità ha fatto un passo in avanti importante nel momento in cui è riuscita a spiegare le ragioni per cui effettivamente, in molti casi, quell’adagio è giusto. Beninteso, per gli scopi pratici, ossia tecnologici, del decidere se andare a pesca oppure no il giorno dopo, il precetto è più che sufficiente, perché la tecnologia è competenza senza comprensione. Non ho alcun bisogno di conoscere le leggi della fisica per andare in bicicletta, così come non ho alcun bisogno di conoscere le leggi dell’informatica per usare un telefonino. Ed è una grande fortuna che sia così, perché altrimenti, se dovessimo disporre di nozioni chiare e distinte di ogni cosa per far qualcosa, non faremmo niente. Questo è il nocciolo sempre più attuale della critica di Giambattista Vico a Cartesio: homo non intelligendo fit omnia, gli umani agiscono prima di comprendere, e la comprensione, se e quando arriva, non è la premessa (come pensano i cartesiani) ma il risultato. Il che tuttavia non toglie che fatti non fummo per viver come bruti, e che la conoscenza è un bene distintivo degli esseri umani. Il fatto che anche ai piani nobili della fisica statistica e poi della fisica quantistica si sperimenti una mancanza di teorie coerenti non costituisce in alcun modo un motivo di vanto per i fisici, ma una perplessità, un inciampo, quello che Kant avrebbe chiamato uno scandalo della ragione, e lascia sempre aperta la speranza di giungere un giorno alla teoria del tutto, perché è solo nel mondo del Grande Inquisitore che il sapere viene subordinato al miracolo, al mistero e all’autorità.
Passiamo all’epistemologia, ossia al valore della scienza. La modernità e la critica, dicevamo, sono la filosofia cartesiana, ai tempi di Vico, che insegnava a scartare tutto ciò che non è perfettamente chiaro, a «essiccare le sorgenti di ogni discorso verosimile». I cartesiani di oggi sono i filosofi analitici, che, dopo aver portato una grande ondata di rinnovamento all’inizio del secolo scorso, oggi si dedicano a giochi di pazienza. Con questo non intendo rivalutare i grandi affreschi impressionistici della filosofia continentale del secolo scorso. In effetti, se il filosofo analitico contemporaneo si rivela l’erede del monaco che parla solo ai confratelli, il filosofo continentale è l’erede dell’ideologo che si rivolge all’intera umanità, ma che per farlo è costretto a ritagliarsi una posizione estremamente infruttuosa, quella del pensatore negativo, ossia di colui che lascia alle scienze positive il compito di dire la verità, per prendere sulle proprie spalle il compito, apparentemente speculare ma infinitamente più leggero, di maledire la tecnica e la scienza proprio come il don Ferrante manzoniano e gli eroi di Metastasio maledicevano le stelle. Ma, per fortuna, al mondo non ci sono solo filosofi, ma anche scienziati veri e propri. E il fatto che moltissime cose non possono essere spiegate, la circostanza per cui di molte correlazioni non si riesca a comprendere la causa, non ha mai eliminato la necessità della teoria, e non si vede perché dovrebbe farlo adesso. Tutte le volte che lascio cadere un sasso, va a terra. Posso spiegare il fenomeno con la teoria dei luoghi naturali, con quella della gravitazione universale, o magari ancora con un’altra teoria che in questo momento sta elaborando un dottorando in fisica. Ma se qualcuno venisse a dirci con orgoglio o strafottenza che la pietra cade a terra indipendentemente dalle teorie, e che dunque possiamo fare a meno di quel laborioso strologare sulle cause, avremmo tutto il diritto di rispondergli che, se è per questo, l’asino va dritto al fieno senza aver letto una riga di Euclide, ma resta un asino.
Non resta che la teleologia, la dottrina dei fini, che costituisce uno specifico della filosofia. Sin qui, infatti, ho parlato di «teoria» e non di «filosofia», e questo per l’ottimo motivo che ci può essere teoria senza filosofia (lungi da me il riesumare i trucchetti dialettici di chi sostiene che ci va filosofia anche per negare la filosofia), ma ovviamente tutte le filosofie sono delle teorie. Una teoria è un sistema che sostituisce alla osservazione e alle eventuali correlazioni che se ne possono trarre in via ipotetica una spiegazione o una interpretazione. La spiegazione riconosce le cause (Hiroshima è stata distrutta da una bomba atomica), l’interpretazione indica i fini, ossia le ragioni per cui qualcosa è stato fatto (il presidente americano Harry S. Truman ha ordinato di sganciare l’atomica perché le perdite americane sull’isola di Okinawa erano state tali da far pensare che un’invasione del Giappone sarebbe stata un bagno di sangue). Ora, la filosofia, scriveva giustamente Kant, è la teleologia della ragione umana, nel duplice senso di essere lo strumento che ci permette di riconoscere i fini che guidano i comportamenti nostri e altrui e, in momenti di grazia, di indicare dei fini accettabili per l’umanità. Si può legittimamente dubitare dell’adeguatezza della filosofia a uno scopo così alto, ma non si può dubitare della necessità di questo scopo, e soprattutto non sembra che a tutt’oggi si sia trovato qualche altro candidato che possa convincentemente assolverlo. Se questo è vero, non solo la fine della teoria è una stupidaggine, ma la fine della filosofia è una stupidaggine ancora più grossa, tant’è vero che mai come in questi anni si sente la necessità di una nuova alleanza fra tecnologia e filosofia, ossia di una scienza nuova per una tecnica sempre più potente, ma che è pericolosa solo per chi ha preferito le tenebre alla luce.
La teleologia della ragione umanaNon c’è dunque nulla di più sbagliato che concludere che la filosofia è al capolinea, come si leggeva quando, con un’idea che retrospettivamente mi sembra irresponsabile sebbene poi abbia determinato la felicità della mia vita, mezzo secolo fa mi sono iscritto a Filosofia. Niente affatto, anzi, non è mai stata così bene. Prendiamo il caso del mondo sociale. A lungo è stato considerato il dominio dell’arbitrio e dell’imprevedibile, visto che nessuno mai potrà davvero penetrare fino in fondo nel cuore di un essere umano (né di un castoro, se è per questo), e non potrà farlo neanche il diretto interessato, il portatore di quel cuore. Ma ora che gli atti umani sono registrati nel minimo dettaglio in quel grande archivio che è il web, non c’è nulla che, in linea di principio, possa oggi essere conosciuto, calcolato e, come si dice, «profilato» meglio del comportamento umano. Questo comportamento va compreso e interpretato, ed è per questo che oggi i filosofi sono consultati (cosa che non si vedeva dai tempi di Gottfried Wilhelm Leibniz) da tecnologi ed esponenti del mondo delle professioni, per fornire visioni e interpretazioni.
E, badate bene, ciò che il mondo chiede alla filosofia non è semplicemente un supplemento d’anima. La filosofia, nella sua vocazione alla totalità, ha sicuramente a che fare con l’etica, ma ridurre l’apporto del filosofo a quello di chi non potendo più dare cattivi esempi si riduce a dispensare buoni consigli è più che limitativo: è semplicemente sbagliato. Il filosofo che serve oggi non è solo il moralista che ci invita a venerare madre natura, per quello ci sono già le religioni; non è nemmeno soltanto il nostalgico della crisi dei valori o il teorico del declino dell’Occidente, per quello c’è Vladimir Putin; né esclusivamente il cultore di giochi di pazienza con quattro amici che si distribuiscono patenti di eccellenza.
C’è molto altro da fare, che personalmente considero più interessante. Facciamoci caso. Nel secolo scorso buona parte della umanità era persuasa che il capitale sarebbe crollato sotto il peso delle sue contraddizioni, e che si sarebbe aperta una nuova epoca segnata dal trionfo del lavoro. Poiché la storia è dispettosa, o forse semplicemente difficile da prevedere, è successo esattamente il contrario. Il capitale domina ovunque, anche là dove si fa il possibile per ritagliarsi, solitamente con maniere spicce e irriguardose dei diritti umani, dei mondi fondati ancora sul sangue, la terra e la guerra. Ma sono tentativi fallimentari come l’idea di tornare a camminare a quattro zampe. Perché il capitale è sempre con noi, nei telefonini e nei mille altri attrezzi che trasformano in dati e in valore potenziale la nostra intera vita.
E visto che i dati servono egregiamente ad automatizzare i processi lavorativi, a scomparire sono invece i lavoratori. Chi guardasse la società contemporanea con occhi distaccati, avrebbe forse l’impressione di avere a che fare con un mondo di cacciatori e raccoglitori, che si agitano e si spostano, magari anche faticano, ma per lo più si dedicano alla contemplazione e manipolazione di piccoli oggetti da cui non si separano mai. Diversamente da mezzo secolo fa, molti filosofi (tra cui chi scrive) hanno dismesso la pretesa di essere gli etnologi della etnia occidentale, ma non è modestia. Coltivano infatti il più ambizioso dei progetti: fornire gli strumenti che consentano all’umanità di riappropriarsi del patrimonio che le appartiene, nella società, nell’ambiente, nella vita di tutti i giorni. E questo senza attacchi al Palazzo d’inverno, ma con un lavoro fatto di comprensione umanistica e di competenza tecnica, di esperienza e d’immaginazione.
È su questi temi che la società è tornata a guardare la filosofia, assegnandole una funzione positiva e propositiva. Le domande filosofiche a questo punto sono, ad esempio: l’intelligenza artificiale ci porterà via il lavoro? Certo che sì, è fatta per quello, ed è qui che si devono trovare alternative per una umanità che non produce più beni, ma valori. L’intelligenza artificiale cioè prenderà il potere? Certo che no, perché le macchine non hanno un corpo, e solo un organismo può desiderare il potere. Oppure: a chi appartengono i dati che ognuno di noi produce proprio perché è un organismo sistematicamente connesso, da qualche anno a questa parte, a dei meccanismi di registrazione? Non tanto a ognuno di noi, che non abbiamo fatto niente individualmente per far sì che fossero registrati, ma alla umanità nel suo insieme, con un patrimonio che, se ben compreso e bene investito, potrebbe rimediare ai tanti problemi nati dalla progressiva scomparsa di lavori faticosi e noiosi, che nessuno di noi potrebbe in coscienza rimpiangere, se non per il reddito e la dignità che conferivano ai lavoratori.
E ancora: la storia va verso il meglio? E se sì, di chi è il merito? O se no, a chi diamo la colpa? Ovviamente, le ultime due non sono domande da farsi. La storia, sebbene sia opera dell’uomo, non è scritta da questo o da quell’uomo in particolare, i quali sono pedine di un gioco più grande di loro, nel quale tuttavia non c’è nessun Grande Giocatore. Se Dio non gioca a dadi, appare ancora più problematico pensare che giochi a scacchi, se non altro perché non è chiaro chi sarebbe l’antagonista. Tolta di mezzo la ricerca del meritevole o del colpevole, però, sono convinto che la storia vada verso il meglio, e che il progresso, diversamente dal declino, non sia un mito. Se avremo la pazienza di guardare nel cuore del presente potremo trovare infinite prove di questo progresso, e in fondo il solo fatto che otto miliardi di persone abitino oggi la terra ne è una prova. Insomma, per come siamo fatti ci è andata sin troppo bene.
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