di
Gabriele Romagnoli
Una sera a New York stavo ballando con Daisy quando ho sentito una mano posarsi sulla mia spalla, una voce che diceva: « Ehi, old sport! » , mi sono girato e c’era Gatsby, il grande Gatsby in persona, venuto a reclamare la donna della sua vita, cercando, ancora una volta, di ripetere il passato. Eravamo nel salone delle feste di un grande albergo, vestiti ( per intero o in qualche particolare) come negli Anni Venti. L’orchestra suonava, Tom Buchanan alzava un calice dietro l’altro, Nick Carraway osservava ogni cosa per poterla raccontare e le comparse ( noi) erano spettatori paganti venuti da un altro secolo, il seguente, anche loro a ripetere il passato, perché convinti si potesse, certo che si poteva.
Era una rappresentazione teatrale in cui gli attori si mescolavano al pubblico, la narrazione si snodava su piani diversi. Eravamo lì non per assistere, ma per immergerci in una festa di Gatsby, come sognavamo di fare da quandone avevamo letto. Avevamo visto i due film, quello con Robert Redford e l’altro con Leonardo DiCaprio, il musical a Broadway. Avevamo incontrato, nel corso delle nostre esistenze, almeno un paio di Gatsby: uomini misteriosi, che davano feste a cui non partecipavano, ricchi, generosi, tremendamente soli. Volevamo l’originale, ma sapevamo che non esisteva: era soltanto una fantasia, incartata in un sogno dentro una finzione. Perché allora continuavamo a inseguirla cent’anni dopo che Francis Scott Fitzgerald l’aveva concepita?
Il grande Gatsby è uno specchio, un inganno, una frase in cui ci perdiamo e, forse, il più bel finale della storia della letteratura americana: con chi, dove e in quale altro tempo dovremmo voler essere? Il romanzo è lo specchio di un’epoca, la cristallizza, rendendola eterna e universale. Non importa se non abbiamo conosciuto il proibizionismo, gli anni ruggenti e l’età del jazz. Sentiamo i calici tintinnare, il liquido scorrere, le bacchette del batterista dare il tempo e i tacchi della biondina con la frangetta seguirlo. E ancora. E per sempre. Disillusione dopo la fine di una guerra. Esperimenti sociali. Possibilità.
Eccessi. Arte. Miracoli. Ambizioni. Corse in avanti sfrenate e senza legge né morale. « La più costosa orgia della storia » , la definì Fitzgerald prima che le luci si spegnessero, Wall Street crollasse e di quel tempo rimanesse soltanto un eroe: il suo, Gatsby. Nessun altro personaggio ha resistito con tanta forza all’usura degli anni. Come ci è riuscito? Non è certo qualcuno in cui il lettore si possa identificare. Nell’insieme no, ma nelle singole parti sì. Gatsby è ricco, ma non lo è. Ha fatto i soldi, ma per spenderli. Dentro l’immensa casa, le grosse automobili, le morbide dozzine di camicie è il ragazzo povero che ha cercato di essere ammesso al circolo riuscendoci soltanto in apparenza. La tessera che gli hanno dato è provvisoria. Non sarà mai uno di loro, è uno di noi travestito: fragile, illuso, perfino etico. È un criminale in smoking, gestisce affari sporchi senza macchiarsi le mani, sempre in un’altra stanza, sempre con la porta chiusa e la voce bassa. Lo fa per uno scopo che tutto legittima: l’amore. Gatsby è una romanticheria, ma non una qualsiasi. È il concentrato dell’amore più letterario, quello impossibile. Ama qualcosa che è già trascorso, una scia. Nostalgia significa dolore del ritorno e lui è tornato per sperimentare non la felicità, ma la pena. E lo sa. Dietro l’ostinazione c’è la malinconia. Dietro la spacconeria l’irritazione dell’escluso. Dietro la maschera della sicurezza il volto dello smarrimento.
Tutti, a livello individuale e collettivo, abbiamo un tempo, un luogo e una persona che restano avvolte nella nuvola dorata della memoria e si fanno più grandi più si allontanano, più memorabili più le dimentichiamo. È una delle contraddizioni della vita, innescata dall’età che avanza: scambiare l’ideale con il già sperimentato, santificarlo per darci un senso, pronti a barattare quel che resta del rettilineo con l’inversione a U. Ricominciare per riavere le stesse possibilità, annullare la frattura del frattempo e dirsi che nulla, mai, è andato storto. Gatsby è l’alfiere di quella speranza senza fondamento che può concludersi soltanto con il fallimento, riscattato da un gesto estremo e infine assolutamente morale: il sacrificio.
Quella frase chiave: « Non si può ripetere il passato? Certo che si può » è, letta un secolo dopo, anche una sinistra profezia, l’eco al contrario di una nostalgia ridivenuta intento, che sulle ali dell’ignoranza ( a pensar bene) e della crudeltà ( a essere oggettivi) risospinge la barca della storia nelle acque purtroppo conosciute che portano al sacrificio dei migliori e al trionfo nel sangue dei pessimi.
È un romanzo sul tempo ( nell’edizione originale la parola appare 87 volte e 450 sono le espressioni che la riguardano). Il tempo è evoluzione, cambiamento, conquista, perdita. In definitiva, resta soltanto quest’ultima. L’eternità è raggiunta attraverso la magia dell’istante: una nota musicale, il balenare di un volto, il lampo di una luce verde. Il resto è decadenza. Il tempo è anche riduzione a una delle possibilità. Dopodiché quella rimasta si fa storia. Il grande Gatsby, per dire, è un titolo che ci appare perfetto e incontrovertibile. Eppure a Fitzgerald non piaceva e si è lungo baloccato con altri (“ Trimalcione”, “ Tra ceneri e milionari”, “ Rosso, bianco e blu”) ma, come sliding door mai aperte, non riusciamo neppure a immaginarli sulla copertina. Esiste una perfezione logica in ciò che è definitivo. Come esiste nel finale del romanzo. Si studiano di solito gli incipit, ma varrebbe la pena dedicarsi alle chiusure e ripetersi sottovoce, per tutto il tempo che resta: « Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno arretra davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più velocemente, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… E così andiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta verso il passato » . Andiamo, rileggiamo.