Berlino
Tagli salariali, riduzione del personale e chiusura degli stabilimenti: è questo ad agitare come mai in passato il sindacato del più noto marchio dell’auto tedesca, Volkswagen. A partire da oggi «tutti gli stabilimenti inizieranno uno sciopero. Quanto a lungo e con quale intensità, dipende da cosa deciderà Volkswagen al tavolo delle trattative» ha fatto sapere ieri sera Thorsten Gröger, colui che si occupa dei negoziati con VW per conto di IG Metall, il più grande sindacato dei lavoratori del settore metalmeccanico, con oltre due milioni e seicentomila iscritti. «Se necessario, questo sarà il conflitto sindacale più duro che Volkswagen abbia mai visto» ha sottolineato Gröger.
A partire da oggi termina il periodo di pace sindacale, ovvero il momento durante il quale è sospesa l’astensione dal lavoro per garantire lo svolgimento delle trattative tra le parti sociali. Finora sono andate in scena tre sessioni negoziali, tutte finite in un buco nell’acqua. Il prossimo round si terrà a breve, il 9 dicembre, ed è chiara l’intenzione di IG Metall di fare sentire all’azienda il peso di un eventuale mancato accordo.
Ma se gli effetti dello sciopero saranno tutti da valutare, il suo annuncio non ha colto di sorpresa la Germania. Già a metà settembre indiscrezioni trapelate sulla stampa avevano diffuso le intenzioni del management tedesco di ridurre di circa un quarto il personale totale in Volkswagen: trentamila posti di lavoro su un totale di centoventimila. A fine settembre altri rumors hanno raggiunto le orecchie dei lavoratori tedeschi alla vigilia dei round negoziali. Nella cosiddetta “lista dei veleni” – ovvero le misure di risparmio proposte dalla dirigenza per un totale compreso tra i tre e i quattro miliardi – è comparsa la richiesta di una riduzione in media del 10% dei compensi dei dipendenti, la possibilità di riduzione del personale a partire dal 2025, la sospensione dei bonus legati alla produzione e la notizia più ferale di tutte: la chiusura di almeno tre stabilimenti in Germania. Nessuna di queste richieste è stata ancora assunta come decisione, ma il quadro al tavolo dei negoziati si presenta così. Dal management la spiegazione che arriva, ripetuta con pochissime variazioni, è sempre la stessa: «Le nostre capacità produttive in Europa sono troppo elevate. Sono state pianificate per un mercato di circa 16 milioni di veicoli all’anno, ma ora il mercato automobilistico si è ridotto a 14 milioni» ha detto l’amministratore delegato del marchio VW Thomas Schäfer in un’intervista a Welt am Sonntag domenica scorsa. «Ciò significa che a VW mancano all’appello 500.000 auto all’anno, una quota di mercato di circa il 25 percento» ha proseguito il manager.
Il sindacato due settimane fa ha replicato con una controproposta. Offre di congelare l’aumento salariale del 7% originalmente richiesto in un Fondo per il futuro. «La nostra proposta, che sospende in via temporanea gli aumenti, permette all’azienda di recuperare subito 1,5 miliardi», spiega a La Stampa Stephan Soldanski, sindacalista di IG Metall. In cambio si chiede a Volkswagen di rinunciare alla chiusura degli stabilimenti e ai licenziamenti per motivi aziendali.
Nel piano per il futuro, inoltre, IG Metall chiede al governo di sospendere la regola del freno al debito – che limita l’indebitamento pubblico allo 0,35% sul Pil – e dotarsi di un fondo per gli investimenti, in modo da sostenere l’industria dell’auto, così come accade in Cina. Ma se il governo di Berlino, con le probabili elezioni federali alle porte il 23 febbraio prossimo, non è in grado di rispondere alle richieste, la dirigenza di Volkswagen può farlo e lo ha fatto. E la risposta non è stata positiva. «Un risparmio duraturo di 1,5 miliardi non è riscontrabile secondo la nostra attenta analisi», ha scritto l’azienda in una nota. «Dobbiamo diminuire le nostre capacità e adeguarci alle nuove realtà» ha dichiarato l’amministratore delegato del marchio VW, e per questo non c’è modo di evitare la chiusura delle fabbriche. La parola ora passa alla piazza.