La destra spagnola lascia l’Ecr per il gruppo di Orbán Palazzo Chigi pronto a togliere le competenze sull’Ucraina al comitato dove siede il leader leghista
di
Tommaso Ciriaco
ROMA — Già la battaglia pubblica di queste ore racconterebbe da sola di un rapporto teso vicino al punto di rottura. Matteo Salvini che scippa gli spagnoli di Vox ai Conservatori di Giorgia Meloni e li conduce nel nuovo gruppone putiniano con Viktor Orban e Marine Le Pen. Matteo Salvini che gode a mezzo stampa del sorpasso dei sovranisti ai danni di Ecr e rivendica l’affronto del tradimento, perché a voltare le spalle alla premier sono stavolta gli amici a cui consegnò l’iconico discorso urlato yo soy Giorgia, soy una mujer, soy madre, soy cristiana . Eppure, per pesare la portata dello scontro che dilania in queste ore il governo – corrodendo rapporti già usurati, spingendo la leader a pensare sempre più insistentemente ai vantaggi di un eventuale reset elettorale – si può partire da un’altra storia. Nascosta, ma altrettanto pesante. Ruota sempre attorno al duello tra la presidente del Consiglio e il suo vice. E riguarda la questione cruciale della sicurezza della Repubblica.
Qualche mese fa, su pressione del vicepremier leghista, la maggioranza inserì nel ddl cybersicurezza una proposta di riforma del Cisr, il Comitato interministeriale per la Sicurezza della Repubblica. E’ un organismo in cui siedono la premier, l’autorità delegata ai Servizi, i vertici dell’intelligence nazionale (dunque Dis, Aisi e Aise) e i principali ministri che si occupano dei dossier più sensibili: Interni, Esteri, Difesa, Economia, Giustizia ed Energia. Il ritocco legislativo apre il tavolo ad altri tre ministri: quello dell’Università, dell’Agricoltura (in caso di crisi, l’alimentazione è asset sensibile) e, appunto, le Infrastrutture (data la delicatezza della difesa di strade, porti ed aeroporti). La novità – operativa dallo scorso 2 luglio – è però figlia di un incidente politico: nel 2023 Meloni affidò la regia delle politiche migratorie al Cisr, escludendo così Salvini (alla fine invitato per ridimensionare il caso).
Ecco, le ultime notizie sul gruppo putiniano di Orban e Salvini – e dopo la missione del premier ungherese a Mosca, contro il volere tra l’altrodel governo italiano – hanno generato una crepa profonda nell’esecutivo. E alimentato a Palazzo Chigi alcuni dubbi – riferiscono fonti meloniane che preferiscono restare anonime – sull’opportunità di coinvolgere il Cisr su questioni cruciali come la guerra in Ucraina, la cybersicurezza – messa a dura prova da Mosca – e la pianificazione delle strategie dell’intelligence. In altri termini, la divisione di posizionamento tra la premier e il suo vice starebbe consigliando una frenata rispetto al raggio d’azione del comitato, che potrebbe essere utilizzato soltanto perl’azione contabile e amministrativa sul comparto della sicurezza.
Questo il livello del conflitto. Ma torniamo a Vox. Martedì scorso l’amico ed alleato Abascal raggiunge Meloni al telefono. La avverte della decisione di mollare Ecr. La premier gli chiede di rimandare di un po’l’annuncio, ma la notizia trapela poco dopo. Ma ciò che più conta, è Salvini a rivendicare l’operazione pochissimi minuti dopo: «L’adesione degli spagnoli è un segnale importantissimo – esulta la Lega – Cresce il fronte del cambiamento in Europa, determinato a dire no alla Von derLeyen e ai socialisti».
Un comunicato velenoso. Che punta a danneggiare la leader anche sul fronte negoziale. Meloni, già costretta a dover immaginare un modo per rientrare nella trattativa per la nuova Commissione europea, vede indebolirsi il suo gruppo all’Europarlamento: la somma di Identità e democrazia e della pattuglia di Orban, assieme ai sei scranni di Vox, porta i “Patrioti” a 81 seggi (84 se dicessero sì gli sloveno di Jansa). Ecr scende a quota 78 e subisce il sorpasso: non è più la terza forza, ma la quarta. Rischiando anche un ulteriore declassamento: i liberali sono a un passo, con 76 eurodeputati.
Non è il modo migliore per rafforzarsi in vista della negoziazione con Ursula von der Leyen. Si aprirà lunedì, all’indomani dell’esito elettorale in Francia. A quel punto Meloni avrà contatti telefonici con Ursula von der Leyen. E a Washington, a margine del vertice Nato, incrocerà gli altri azionisti del patto europeista: Macron e Scholz, Sanchez e Tusk. È scontato che all’Italia venga garantito un portafoglio di peso (come sempre), molto meno probabile una vicepresidenza esecutiva. In questo scenario, i fratelli d’Italia potrebbero non sostenere Ursula. «Al momento non ci sono le condizioni per votare a favore – dice Carlo Fidanza – Astenersi? Equivale a voto contrario, non avrebbe molto senso». Dunque, la scelta sembra ridursi a un sì esplicito o a un no, che porterebbe però Meloni sulle stesse posizioni dell’estrema destra dei “Patrioti”. È un bivio strettissimo, perché c’è chi consiglia Meloni di far valere proprio l’addio di Vox e la fedeltà di Ecr alla causa atlantica per avviare un dialogo con il Ppe e la Presidente designata.
Assieme a Meloni, si spenderà nella mediazione anche Raffaele Fitto. E un ruolo lo giocherà Antonio Tajani, allarmato dal rischio di una rottura con la Commissione e da una tempesta autunnale sui mercati. È un’ansia che si sfoga negli sgambetti di queste ore. Inizia Tajani, interpretando il fastidio di Meloni: «I “Patrioti” è un gruppo ininfluente – dice – nessuno vuole poi discutere con loro ». «Io aspetterei metà luglio – risponde Salvini dalla masseria di Bruno Vespa – per verificare chi è irrilevante». Il governo, intanto, si sfalda.