È un crimine di guerra, serve la verità
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18 Ottobre 2023di Marco Travaglio
I sogni muoiono all’alba, ma anche la sera. Tel Aviv, piazza dei Re d’Israele, 4 novembre 1995, ore 21.30. Il premier Yitzhak Rabin termina il suo discorso a una manifestazione di sostegno agli accordi di Oslo che dilaniano il Paese: “Vorrei ringraziare ognuno di voi che è venuto qui oggi a manifestare per la pace e contro la violenza. Questo governo, che ho il privilegio di presiedere con il mio amico Shimon Peres, ha scelto di dare una possibilità alla pace, una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele… La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. Poi scende dal palco e, mentre sta per raggiungere l’auto blindata della scorta, uno studente israeliano di estrema destra, Yigal Amir, gli spara due colpi di pistola. Rabin muore poco dopo in ospedale: ucciso, come Sadat 14 anni prima da un fanatico jihadista, per avere firmato la pace proibita. Ai suoi funerali a Gerusalemme, insieme a un milione di israeliani e a molti capi di Stato e di governo da tutto il mondo, partecipano diversi leader arabi che non hanno mai messo piede in Israele.
La prima volta di Bibi. A Rabin succede Peres, ma dura pochi mesi. Le elezioni del 1996 le vince il nuovo leader del Likud, il 47enne Benjamin Netanyahu detto “Bibi”, che diventa il primo premier israeliano nato nello Stato ebraico. Militare, politico, uomo d’affari e di malaffari, vissuto per anni negli Usa, in campagna elettorale Bibi ha vellicato la pancia e le viscere degli ebrei più diffidenti sul percorso di pace, promettendo agli elettori di fare a pezzi gli accordi di Oslo. Mette in piedi il governo più a destra della storia di Israele, alleandosi con gli ultranazionalisti e i partiti religiosi. E inizia a demolire tutto ciò che non solo Rabin e Peres, ma anche i padri del suo partito Begin e Shamir, hanno costruito negli ultimi 18 anni da Camp David in poi. La nascita del suo governo è il “tana liberi tutti” per il ritorno all’odio e alla violenza. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, frenati da Rabin, riprendono a spron battuto. Intanto Arafat è stato eletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Netanyahu, pur ritirando l’esercito dai territori occupati come previsto dagli accordi di Oslo, li sabota nei fatti con continue provocazioni. E così, come già aveva fatto Rabin prima di Oslo, rafforza consapevolmente Hamas, suo vero alleato occulto all’insegna del “tanto peggio tanto meglio”, che moltiplica gli attentati suicidi contro i civili israeliani. Clinton si danna l’anima per ricucire la tela e sembra farcela: Bibi, complice il suo primo scandalo di corruzione, vede sfarinarsi la sua coalizione di governo: nel 1999 perde le elezioni anticipate e lascia la politica per dedicarsi ai suoi affari.
Barak, l’occasione mancata. Il nuovo premier è il generale ed economista laburista Ehud Barak, ritira subito Israele dalla “fascia di sicurezza” nel Libano del Sud e riprende i negoziati con l’Olp. È convinto che perpetuare l’occupazione dei Territori “condurrà inevitabilmente o a uno Stato non-democratico o ad uno Stato non-ebraico. Infatti, se i palestinesi voteranno, saremo uno Stato binazionale; se non voteranno, saremo uno Stato segregazionista”. E nel 2000, a Camp David, sotto lo sguardo di Clinton, offre ad Arafat una soluzione tutt’altro che perfetta, ma la più vantaggiosa mai proposta da Israele dal 1967: uno Stato palestinese nel 73% della Cisgiordania (che entro 25 anni salirebbe al 90% e intanto verrebbe integrato da una porzione di Negev) e nel 100% della striscia di Gaza, con Gerusalemme Est capitale, il ritorno di un certo numero di profughi e un indennizzo per quelli restanti. Arafat rifiuta senza neppure avanzare una controproposta, fa fallire il summit e imbocca il viale del crepuscolo. Anche il governo Barak, rimasto col cerino in mano, entra in crisi. E il Likud torna a spopolare, non più con Netanyahu, ma con Sharon.
L’eroe del Kippur, azzoppato dalla guerra libanese e dall’inchiesta su Sabra e Chatila (nel 1983 la Corte Suprema israeliana ne aveva ordinato la rimozione da ministro della Difesa), si rilancia con uno dei suoi temerari gesti dannunziani. Il 28 settembre 2000 passeggia platealmente e provocatoriamente sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, con un migliaio di militari di scorta, per proclamare anche la città orientale “eternamente israeliana”. Le furibonde proteste palestinesi sfociano nella seconda Intifada, molto più cruenta della prima, sia per la sempre più massiccia presenza di Hamas con i suoi attentati ormai fuori dal controllo dell’Anp, sia per la durezza della repressione israeliana. Durerà fino al 2005, mietendo oltre 4 mila vittime palestinesi e mille israeliane.
Muore Arafat, risorge Sharon. Nel 2001 l’Onu torna protagonista sullo scacchiere mediorientale dopo decenni di latitanza per la Guerra fredda: il segretario generale Kofi Annan convince gli Usa di George W. Bush, la Russia di Putin e l’Unione europea a dare vita insieme con lui a un “Quartetto per il Medio Oriente” per riannodare il filo spezzato di Oslo. Nello stesso anno Israele torna alle urne e vince Sharon. Il suo primo atto è chiudere ogni rapporto con l’ormai inutile e screditato Arafat, confinato e assediato nel suo quartier generale di Ramallah. Il secondo è una raffica di bombardamenti su Gaza e Cisgiordania, con almeno tremila case distrutte, oltre al porto della Striscia. Nel 2004 un missile israeliano uccide lo sceicco Ahmed Yassin, cofondatore e capo spirituale di Hamas, mentre esce da una moschea a Gaza. Israele inizia a costruire un muro divisorio dai Territori: ufficialmente serve a fermare gli attentati kamikaze, che si assottigliano drasticamente; nei fatti complica vieppiù la vita già infame dei palestinesi. Sembrano tutte mosse per seppellire gli accordi di Oslo, ma ciò che accade di lì in poi dimostra che c’è dell’altro.
Arafat è ormai isolato anche fra i suoi, dopo tanti errori politici e sospetti di corruzione. Il suo ultimo atto è licenziare il suo stesso premier Abu Mazen. Poi entra in coma e l’11 novembre muore. Di cosa, nessuno lo saprà mai, perché sul corpo non viene effettuata alcuna autopsia prima della sepoltura a Ramallah. Qualcuno parlerà di Aids, chi di altre cause naturali, chi di avvelenamento da polonio. Sepolto il vecchio Yasser, sparita la sua corte, si rafforza una nuova classe dirigente palestinese in grado di trattare con Israele attorno ad Abu Mazen, confermato dalle elezioni come premier dell’Anp.
Addio a Gaza. Nell’estate del 2005 Sharon fa la mossa del cavallo: ritira unilateralmente l’esercito da Gaza. Il 12 settembre l’ultimo soldato di Tsahal lascia la Striscia, che passa sotto il pieno controllo dell’Anp. Israele però vigila a distanza via terra, cielo e mare. Il momento più drammatico del “disimpegno” è la rimozione forzata degli 8.500 coloni ebraici, che non vogliono saperne di sloggiare da Gaza e vengono sgomberati con le maniere spicce dai loro 21 insediamenti. Altri sgomberi di coloni Sharon li ordina dal Nord della Cisgiordania, scatenando altre proteste e scontri con l’esercito. Che succede nella testa del superfalco? Si è rammollito? No, sta soltanto seguendo il percorso di altri “duri”, come Begin, Shamir e Rabin: la Storia chiama anche lui a guardare oltre se stesso, a elevarsi da politicante a statista. E lui, a 77 anni, risponde. Il suo discorso alla nazione del 15 agosto 2005 dice tutto: “Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me è un momento particolarmente difficile… Come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo Paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione. Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza… Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati. Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai”.
La strana coppia. Ormai, nel Likud, Sharon è guardato con sospetto, come una specie di traditore. Il redivivo Netanyahu, tornato alla politica come ministro delle Finanze, lascia il governo in polemica col ritiro da Gaza. Ariel taglia corto: il 21 novembre pianta in asso il suo partito e ne fonda uno nuovo di centro liberale, Kadima (“Avanti”), a cui aderisce subito l’avversario di sempre, Shimon Peres, che molla i laburisti. I due grandi vecchi, il simbolo del pugno di ferro e quello del guanto di velluto, gli ultimi statisti nati prima di Israele si danno la mano per accompagnarlo nella traversata del deserto più difficile: quella verso il futuro. Ma la nuova speranza durerà meno di un mese.