Il ministro del dialogo Addio a Luigi Bettazzi testimone del Concilio. Vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi, fu molto apprezzato a sinistra
TORINO — Dal Veneto di respiro fogazzariano (nacque a Treviso nel 1923), alla Bologna anni Cinquanta di Dozza, Dossetti, Spadolini (che sulCarlino battezzerà il fortunatissimo “Tevere più largo”), al Canavese verde e un po’ eretico, tra il filosofo Piero Martinetti, la teologia Adriana Zarri, la Comunità di Bose. Qui, nel castello di Albiano, si è conclusa ieri, a novantanove anni, la parabola di monsignor Luigi Bettazzi, l’ultimo vescovo italiano ad aver partecipato al Concilio Vaticano II.
Alla guida della diocesi eporediese fra il 1966 e il 1999, già presidente nazionale e internazionale di Pax Christi, Bettazzi richiamò soprattutto l’attenzione su di sé negli anni Settanta, quando interpellò il mondo politico con una serie di lettere aperte: a Zaccagnini, a Craxi, a – la missiva destinata alla maggiore eco – Enrico Berlinguer: «Mi sembra legittimo e doveroso per un vescovo aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini».
Era il 1976, di lì a due anni diverrà papa Karol Wojtyla, che non mancò di censurare in un vis-à-vis l’apertura a sinistra del “vescovo rosso”. Ma un giorno Bettazzi avrebbe trovato conforto – se mai abbisognasse di conforto – nelle parole di Francesco: «Privilegiare i poveri non vuol dire essere comunisti». Giovanni Paolo II dopo Montini, scomparso nel 1978, l’annus orribilis di Moro. Bettazzi, che si era offerto al suo posto come ostaggio. Neanche con Paolo VI siscoprì all’unisono. A cominciare dal trattamento riservato a Lercaro, vescovo di Bologna, di cui fu ausiliario, rimosso dopo l’omelia contro i bombardamenti in Vietnam, il primo gennaio 1968.
Non un vescovo contro, Bettazzi, ma un presule che, come il cardinal Martini, era solito distinguere fra pensanti e non pensanti. E così non esitò a dichiarare superata l’Humanae vitae («Non si può concepire la sessualità solo in funzione della procreazione»); aprì ai Dico, in sintoniacon Prodi; dissentì dal cardinal Ruini, contestandone l’espressione «valori non negoziabili» («L’unico valore non negoziabile è la solidarietà»); non escluse il superamento del celibato; non sbarrò le porte alle adozioni gay, alla stepchild adoption («Il bene del bambino su tutto»).
Uomo “integralmente” del Concilio (l’11 ottobre 1963 pronunciò l’intervento in favore della collegialità), monsignor Luigi Bettazzi intese la vita come un affare, infine, di coscienza («la coscienza che è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio»). Ad Albiano sicuramente l’ozio non avvolse il monsignore. Un “vescovo e laico” sempre in cammino, nel suo bagaglio sia la Parola sia le montaliane “parole tra noi leggere”. Patendo ancora, di tanto in tanto, la diffidenza, l’incomprensione. L’ultima volta, forse, a Bologna, quando la curia non gli consentì di presiedere la celebrazione eucaristica in morte di Giuseppe Alberigo, storico del Vaticano II, ma solo di presiederla. Correva il 2007, il Concilio ancora non aveva (come ancora non ha) fatto definitivamente breccia. L’interlocutore ideale di Bettazzi, Matteo Maria Zuppi, di là da venire. Interpellato da Repubblica , Zuppi lo saluta così: «Era capace di leggere i segni dei tempi, era appassionato del Vangelo che viveva in modo rigoroso, non lo voleva funzionale all’individualismo. Ci stavamo preparando a festeggiare nel giorno di San Petronio il 60° del suo episcopato: lo ricorderemo, con il suo sogno di una chiesa viva».