Nella mia memoria la Dc era, prima di tutto, un rapporto rilassato con il tempo: un rinvio di un’ora poteva allungarsi a cinque, uno di tre scavallare l’intera giornata. E poi un certo sudore accaldato sotto pesanti giacche scure, è rimasto per me l’odore democristiano, di politica e umanità mai separate. La settimana scorsa ho visto una bandiera bianca con lo Scudocrociato sventolava agitata da un impercettibile soffio di vento dietro il feretro di Arnaldo Forlani, dopo i funerali religiosi nel metafisico quartiere romano dell’Eur, alla presenza di Sergio Mattarella, che di Forlani era stato vice-segretario.

E mi è tornato in mente un alpino con la barba bianca, che teneva in mano una bandiera bianca scudocrociata, chissà se la stessa, accanto al palco degli oratori dei congressi della Democrazia cristiana al Palazzo dello Sport, all’Eur. Davanti a lui sfilavano presidenti del Consiglio, ministri, notabili, tifosi, faccendieri, l’alpino restava in piedi, impassibile, in silenzio. In quei congressi che contavano più delle elezioni, perché segnavano le svolte politiche del paese, un po’ convention americane, un po’ liturgie barocche, messa cantata e curva da stadio, con i delegati in platea e gli invitati in tribuna che contestavano i capi delle correnti avversarie. Nel 1976 L’Espresso si divertì a citare gli insulti e i destinatari: «Venduto, Giuda, traditore» (Rumor), «La Lira te la sei portata a casa» (Colombo), «Cia Cia» (Donat Cattin), «Puzzone» (Piccoli). Se ci fosse un romanzo democristiano, partirebbe da qui, da quella bandiera dimenticata che ha segnato mezzo secolo della nostra storia.

«MERITIAMO L’INFERNO»

La Dc finì in una sera d’estate di trent’anni fa, il 25 luglio 1993, al palazzo dei Congressi, sempre all’Eur. La Balena Bianca si inabissò per sempre tra le note del pianoforte e orchestra in do maggiore k 467 di Mozart. Chiuse i battenti con un’assemblea che votò per ricostruire l’antico Partito popolare, in una delle settimane più cupe della storia repubblicana: il 20 luglio il suicidio dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nel carcere di San Vittore, il 23 luglio il suicidio di Raul Gardini con un colpo di pistola nella sua casa, palazzo Belgioioso di Milano, la notte del 27 luglio le bombe della mafia di via Palestro a Milano e di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma.

La fine era stata anticipata da lugubri presagi. «Per certe cose e per certe scelte che abbiamo fatto meritiamo l’Inferno, che il Signore ci perdoni», aveva detto un anno prima Andreotti presidente del Consiglio di fronte a una platea di prefetti, allibiti. Nei giorni del maggio 1992 in cui si era conteso la presidenza della Repubblica con Forlani. Era andata malissimo, con la strage di Capaci e l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. La fine.

L’assemblea della Dc era cominciata il 23 luglio con la drammatica relazione di Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario: «I nostri torti non possono cancellare le nostre ragioni. Non si pronuncia per via giudiziaria una condanna politica irrimediabile. Non intendiamo sottrarci ai verdetti, semmai li chiediamo». Il nome della Dc era già sparito, via dal logo dell’assemblea. Parlarono i protagonisti degli anni futuri: Pier Ferdinando Casini, Rosy Bindi, Enrico Letta. «Ci siamo bruciati i vascelli alle spalle», disse il deputato Mattarella.

CAMALDOLI E LA COSTITUZIONE

La Dc era nata esattamente cinquant’anni prima, nel 1943, ancora a luglio, ottant’anni fa, dopo le riunioni nel 1942, a Milano, a casa di Enrico Falck. Tra il 18 e il 24 luglio gli intellettuali cattolici si erano riuniti nel monastero di Camaldoli, per elaborare un codice, volevano farne un opuscolo da pubblicare con le pagine bianche alternate a quelle scritte, in modo che ciascuno potesse aggiungere e correggere (non fu fatto per la mancanza di carta). C’erano Pasquale Saraceno e Ezio Vanoni, alla stesura parteciparono Giorgio La Pira, Paolo Emilio Taviani, Aldo Moro.

La riunione fu sospesa per il bombardamento di Roma e la caduta del Duce, il 25 luglio 1943. Il giorno dopo furono stampate le Idee ricostruttive della Democrazia cristiana. Non erano un programma e ancor meno un manifesto, per carità, fin dall’inizio il nuovo partito diffidava di progetti epocali e di Weltanschauung. Eppure la visione c’era. La libertà politica, la giustizia sociale con «la soppressione del proletariato», la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese, l’eliminazione delle concentrazioni industriali e finanziarie «creazioni artificiose dell’imperialismo economico» («Lo stato tenderà alla demolizione dei monopoli cui imporrà il pubblico controllo o li sottrarrà alla proprietà privata»), il controllo delle fonti finanziarie degli organi di pubblica opinione per dare alla stampa «maggiore indipendenza e più acuto senso di responsabilità».

«Non è questo il momento di lanciare programmi di parte, il che sarebbe impari al carattere di quest’ora solenne che reclama l’unità di tutti gli italiani», si leggeva nella premessa, firmata Demofilo, l’amico del popolo, lo pseudonimo di Alcide De Gasperi, che sarebbe stato il più grande dei dc, il più votato e il populista dei leader. L’ossatura della futura Costituzione, che poi fu scritta dagli avversari interni di De Gasperi, i professorini di Giuseppe Dossetti.2

UNA STORIA SCRITTA DAI VINTI

Sono passati ottant’anni dal luglio 1943 e trenta dal luglio 1993. Quando la Dc finì, Michele Serra compose una specie di orazione funebre su Cuore, Souvenir Dc, provando a elencare cosa sarebbe rimasto nei decenni successivi: «I caffè dell’Ucciardone, i ministri coi cappucci, i figlioli di Leone, le Carlucci. Le uniformi di Cossiga, i notabili in grisaglia, il costume con la riga di Bisaglia… Nonno Alcide in aeroplano, sull’oceano americano, la Renault senza decoro di Aldo Moro».

Della Dc restava questo, la leggenda nera: gli scandali, le stragi di stato, le ruberie, le clientele, la mafia. I democristiani morivano senza gloria e senza storia, raccontati da altri, l’Italia di Luigi Pintor che non voleva morire democristiana, gli sconfitti che erano sempre stati battuti alle elezioni e che avevano perso la guerra fredda: un raro caso di storia scritta dai vinti e non dai vincitori. Con il tono quasi sempre del grottesco più che dell’indignazione. Il Todo modo di Leonardo Sciascia («una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà. Una ragnatela nel vuoto») e il Todo modo di Elio Petri, con le maschere del potere soffocanti, ripugnanti, che anticipava Il Divo di Paolo Sorrentino ed Esterno Notte di Marco Bellocchio.

Pier Paolo Pasolini voleva trascinare i dc alla sbarra, sotto processo, anche se – premetteva – «l’immagine di Andreotti o Fanfani, di Gava o Restivo, ammanettati tra i carabinieri, sia un’immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora…». Però i capi di imputazione erano articolati come le corone di un rosario: «indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera… distruzione paesaggistica e urbanistica, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, della stupidità delittuosa della televisione, del decadimento della chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori».

Nel 1977, in uno scontro a distanza (ma Pasolini era già stato ucciso), era apparsa una replica il discorso di difesa del presidente della Dc Aldo Moro nell’aula di Montecitorio sullo scandalo Lockheed: «Onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Un anno dopo era toccato a lui, «il meno coinvolto di tutti», come l’aveva definito Pasolini, finire sequestrato, imputato nel labirintico processo nella prigione del popolo ordito dalle Brigate rosse, condannato a morte, a nome di tutti: «Tutti noi del gruppo dirigente siamo chiamati in causa, è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere», aveva scritto il presidente della Dc in prigionia all’amico Francesco Cossiga. Nel 1993 i processi e i carabinieri erano arrivati davvero, non per metafora. E la Dc era finita, senza essersi mai raccontata. Ma non erano state le inchieste a darle il colpo decisivo. Da molti anni si trovava in un paese non più suo, dopo averlo costruito.

UNA RECITAZIONE SOMMESSA

Quando aveva provato a raccontarsi lo aveva fatto con modestia. Nel 1975 la Dc era sotto assedio per l’avanzata del Pci di Enrico Berlinguer e i tanti scandali, l’ufficio propaganda Spes produsse un manifesto elettorale in cui compariva il grande scudo con la scritta «30 anni di libertà». E sotto, in piccolo: «Alcuni buoni, altri meno buoni, ma tutti nella libertà». Ci conosciamo da trent’anni, diceva quello slogan, conoscete bene le nostre virtù e soprattutto i nostri vizi, prendeteci per quello che siamo. In quell’assenza di promesse e di attese di miracoli sembrava luccicare lo spirito democristiano. Lo stesso che aveva spinto il potente Mario Scelba, ministro dell’Interno, a presentarsi nel 1960 in tv, alla prima Tribuna elettorale della storia, ad ammettere la timidezza davanti alle telecamere: «Vi dovete accontentare, ci dovete accettare, belli o brutti, così come siamo».

«Ci veniva istintivo di schivare le insidie, e insieme le lusinghe delle luci della ribalta. Nel palcoscenico della democrazia avremmo avuto, per quasi mezzo secolo, la parte dei protagonisti. Accompagnandola però con una recitazione sommessa, quasi silenziosa. Incuranti del fatto che forse un giorno di quello stesso silenzio saremmo stati rivestiti», ha scritto in Democrazia cristiana. Il racconto di un partito (Sellerio, 2019) Marco Follini, che dopo averla frequentata da politico fin da piccolo si dedica da anni a scrivere, mosso da una solitaria ispirazione, con acutezza e ironia, le pagine del romanzo democristiano che manca al paese.

NON SONO MAI ESISTITI

Le tracce della grandezza della Dc non vanno cercate nella luce, nei trionfi, nelle celebrazioni, ma nel nascosto, nel silenzioso, nel discreto, il più democristiano degli aggettivi. La Dc, parafrasando la lettera di Paolo ai Corinti, è stata in vita scandalo per la sinistra, stoltezza per i liberali, nemica degli eredi del Ventennio fascista, di cui prosciugava l’anticomunismo volgendolo alla democrazia.

Incompresa ieri dagli storici di sinistra, che la avversavano, e oggi dagli storici di destra, che dei democristiani si sono sempre occupati poco, li hanno sempre considerati un incidente della storia, come gli Hyksos di Benedetto Croce, arrivati da chissà dove. Lo dimostra la recente polemica sull’egemonia culturale che svela la lettura di un’Italia in rosso e nero, in cui la sinistra ha soffocato la destra e la destra deve riconquistare le posizioni perdute. Come se la Rai, per esempio, fosse cominciata con la Raitre di Angelo Guglielmi e non con Ettore Bernabei. Come se il bianco, i cattolici democratici con la loro cultura non fossero mai esistiti. La cancellazione che tiene insieme gli intellettuali di sinistra e quelli di destra.

L’EREDITÀ CONTESA

E invece nessuno ha rappresentato tanto gli italiani nelle loro pieghe più profonde come la Dc. Nessuno ha esercitato un’egemonia così diffusa, anche se riluttante e mai dichiarata. Il cinquantennio democristiano è stato non solo mezzo secolo di ininterrotta presenza al governo, di potere nello istituzioni, ma anche la ricostruzione, il miracolo economico, l’unità del paese con la Rai e con le autostrade, la contestazione, il terrorismo, il mutamento dei costumi sociali e individuali. Gestiti, interpretati, non so se anche governati, dall’unico partito-stato che la Repubblica abbia conosciuto. Il solo vero partito degli italiani, l’unico Country party, il partito della nazione. Che non aveva l’obiettivo di cambiare la mentalità degli italiani, ma nei fatti si è intestata la stagione del cambiamento più incisivo.

In vita, come tutti i partiti egemoni, anche la Dc aveva imitatori in tutte le altre formazioni. In tutti i partiti, dal Pci al Msi, c’erano le correnti, la destra e la sinistra interna, il corpaccione centrale di chi stava sempre in maggioranza, i dorotei.

Dopo la fine, in questi trent’anni, in tanti si sono affannati a contendere l’eredità. Il primo è stato Silvio BerlusconiForza Italia, che nel 1994 fu il nome del suo partito, era stato il titolo di un film di Roberto Faenza nel 1978, un blog sulla Dc, ritirato dalle sale il giorno del rapimento di Moro e poi lo slogan elettorale della Dc di De Mita nel 1987. Ma nessuno come il Cavaliere, onnipresente e onnipotente, è stato così lontano dallo spirito dei democristiani, da lui temuti e mai amati.

Il Pd aveva la prospettiva inconscia di costruire una “Balena Rosa”, un nuovo partito-stato, ma della Dc ha ereditato le correnti e il governismo, ma non il radicamento e l’elettorato. Matteo Renzi è stato un giovanissimo democristiano, il suo 40 per cento sembrò rinverdire la tradizione, ma fu una meteora, come il 32 per cento del Movimento 5 stelle nel 2018. Tutti, più o meno inconsciamente, hanno aspirato e oggi ambiscono a quel ruolo che la Dc aveva solidamente occupato per cinque decenni. Oggi tocca ai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Ma non basta un consenso provvisorio per rifare la Dc, così come non serve una certa furberia che caratterizza Conte, Di Maio, Renzi, Franceschini, oltre a Casini. Parlare per ore senza dire nulla non basta a fare di un politico mediocremente scaltro un democristiano.

IL PAESE SPEZZATO

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Per questo la Dc e il suo cinquantennio sono un enigma, un fantasma ancora ingombrante, una pietra di inciampo. Quel partito di centro ma non moderato, cattolico ma non integralista, legato al Vaticano ma laico e a tratti perfino anti-clericale: De Gasperi che dice di no al papa Pio XII che gli chiede di guidare una lista contro le sinistre con monarchici e missini, Fanfani che minaccia di fare irruzione in Vaticano, «se il papa pretende di insegnare a me come mi devo regolare, io verrò al Concilio a prendere la parola per insegnare come si deve dire la messa!», Andreatta che chiede la restituzione dei soldi dello Ior.

Un partito difensore del mercato ma artefice dello stato sociale, popolare ma non populista, anticomunista ma anche orgogliosamente antifascista. Un partito che faceva la riforma agraria ma non si è mai definito riformista. Un partito atlantista, occidentale, saldamente nella Nato, ma autonomo e creativo in politica estera, alieno ai falchi americani alla Kissinger. Europeo, la scelta dell’Europa è la più duratura di De Gasperi, e mediterraneo, vicino al mondo arabo, con Moro, Andreotti e Enrico Mattei, quello reale, non quello dell’omonimo e indefinito piano del governo Meloni. Un partito totus politicus ma anche al di là della politica, come diceva il giovane Moro, attento alla società che si muoveva fuori dalla politica e oltre la politica e alle persone che venivano prima delle ideologie.

Dopo la scomparsa ciascuno ha provato a interpretare un pezzo di quella storia, dimenticando che la forza della Dc era tenere insieme tutti i frammenti. L’Italia era cresciuta, anche per merito dei democristiani, e poi si era secolarizzata, si era de-politicizzata. La Dc si muoveva da tempo in un paese che aveva costruito ma che non più suo. «Noi che abbiamo combattuto e vinto in questi decenni contro chi credeva al tutto della politica, nei prossimi anni dovremo combattere contro il nulla della politica», aveva intuito Martinazzoli nel 1989.

Il Grande Nulla che stava arrivando, sotto forma di partito-azienda, partiti personali, capi nevrotici. Era stato la Dc il partito di tutti gli italiani, di tutte le contraddizioni tenute miracolosamente insieme, non poteva diventare un partito-parte. La Dc era la mediazione tra uno stato da costruire e una società arrivata alla democrazia dopo secoli di divisioni e venti anni di dittatura. La Dc è finita quando è finita la mediazione, quando il paese si è disunito, spezzato. Oggi non si è ancora ritrovato. E non sarà un partito a riunirlo, non sarà più la politica.

Per questo, trent’anni dopo, anche gli avversari di un tempo ne sentono la nostalgia: la nostalgia del tempo della politica. Per questo Sergio Mattarella che andrà a Camaldoli il 21 luglio per celebrare gli ottant’anni del codice sarà l’unico titolato a compiere un gesto di silenziosa riconciliazione del paese con il partito che più di tutti ha influito su quello che siamo, nel bene e nel male. È lui, il presidente che finirà il secondo mandato al Quirinale nell’ancora lontano 2029, è Mattarella l’ultimo custode di una sapienza antica. Il romanzo democristiano, invece, attende di essere scritto, insieme a quello degli italiani.