Riaprire oggi La sesta estinzione, nella nuova edizione ampliata, aggiunge alle qualità appena descritte un connotato che dipende dalla variabile del tempo: nell’arco di un decennio, infatti, non solo si è diffusa la consapevolezza di vivere in un’epoca geologica diversa, l’Antropocene appunto, ma si sono manifestati con evidenza sempre maggiore e più vicina gli effetti di quella crisi ambientale di cui la sesta estinzione di massa, innescata da noi Sapiens, è uno degli aspetti più gravi. Le cinque precedenti estinzioni, spiega Kolbert nel Prologo, sono state provocate da rare congiunture o eventi catastrofici (come l’impatto dell’asteroide che ha portato alla scomparsa dei dinosauri), tali da «causare il tracollo della biodiversità» in tempi e con dinamiche diverse dall’«estinzione di fondo» che caratterizza il normale avvicendarsi delle specie nella storia geologica. La sesta estinzione avanza invece rapidamente e riguarda ogni ambiente, anche quello a noi più vicino: «Se sapete dove guardare» scrive Kolbert «forse potete trovare traccia dell’estinzione attualmente in corso persino nel giardino di casa vostra».
Nei tredici capitoli del libro, Kolbert segue le tracce di questo processo attraverso la vicenda di altrettante specie animali estinte, dal mastodonte americano all’alca gigante (una specie di uccello, un tempo comune nell’emisfero artico, d’aspetto simile al pinguino). L’autrice riflette innanzitutto sulla nascita dell’idea di estinzione, a lungo sconosciuta («Aristotele ha scritto una Storia degli animali in dieci libri senza mai prendere nemmeno in considerazione la possibilità che gli animali avessero di fatto una storia»), almeno fino alle scoperte di Georges Cuvier (1769-1832). Queste hanno alimentato a loro volta l’immaginario sui mondi perduti, di cui le opere di Jules Verne sono un celebre esempio. Certo, in passato era più difficile rendersi conto della scomparsa di una specie (così come della sua nascita, la cosiddetta «speciazione», che richiede tempi molto più lunghi di una vita umana). Ma oggi l’estinzione può avvenire così velocemente da essere notata e registrata nelle cronache scientifiche; questo accade perché siamo noi umani il fattore estintivo, tale da alterare in un certo senso i ritmi della natura: di qui il sottotitolo, Una storia innaturale, del libro di Kolbert.
Ma tra il 2014 e il 2024 è intervenuto un altro grande cambiamento, certamente legato all’Antropocene: la pandemia. Oggi, il tema della decimazione della nostra specie non ci appare più soltanto come un’ipotesi teorica o come il soggetto di un racconto allegorico-fantascientifico, ma è un rischio in un certo senso attuabile, se non ancora attuale. Il nostro punto di vista, la nostra sensibilità sono mutati – gli scrittori di scienza se ne sono resi conto e ne danno prova insieme agli scrittori di fiction (si pensi per esempio agli ultimi romanzi di Elizabeth Strout e Michael Cunningham). Ha ragione perciò Kolbert quando dice, nell’Epilog o del libro aggiunto a questa nuova edizione, che da «un punto di vista geologico», un decennio è «un intervallo di tempo quasi irrilevante»; eppure, osserva subito dopo, «sono accadute molte cose in questi anni, sia ai protagonisti che animano le pagine del volume sia al pianeta nel suo complesso». In particolare, si riferisce a quel fenomeno definito «apocalisse degli insetti», provocato dalla scomparsa o dalla drastica riduzione di molte specie. È una formula suggestiva, legata anche all’immaginario catastrofico nel quale siamo culturalmente calati, ma che non esagera la portata dell’estinzione; e la responsabilità è tutta nostra: «per quanto riguarda gli insetti, gli umani potrebbero rivelarsi più pericolosi di un asteroide».
Risente dei mutamenti di questo decennio anche il finale dell’Epilogo; se infatti nel 2014 prevaleva l’idea che una scelta fosse possibile («Proprio ora, in quel magnifico momento che è per noi il presente, ci troviamo a decidere, senza quasi volerlo, quale percorso evolutivo rimarrà aperto e quale invece verrà sbarrato per sempre»), ora sembrano prevalere il dubbio e il senso della fine: «Per il bene nostro e di milioni di altre specie con cui condividiamo il pianeta, dovremmo adottare tutte le misure appena elencate. Ma non mi sembra che siamo pronti a farlo».