Tra gli slogan che circolano nelle iniziative per l’8 marzo, uno sembra cogliere in modo particolare lo spirito, il dolore, la rabbia del presente: «la lotta è per la vita», recita.

In questa Giornata internazionale della donna, che cade nel tempo della “policrisi” – sanitaria, economica, climatica, bellica – la parola “vita” risuona da un punto all’altro del globo, attraversando i confini. Si unisce al grido “libertà” nelle piazze dell’Iran, ovunque si omaggia il loro coraggio, e in ogni paese in cui soffia il vento della rivolta contro le autocrazie.

Si declina al plurale, in quella rivendicazione di “valore” delle “vite”, di ognuna e di tutte, che dà il tono allo sciopero femminista di Non Una di Meno. «Se le nostre vite non valgono, noi ci fermiamo”, si legge nell’appello alla mobilitazione.

È un lessico, quello delle rivolte femministe, che chiama alla trasformazione radicale del presente. Molto lontano dalle formule usurate delle politiche per le pari opportunità, che assumono un suono rituale in tanti eventi di questa Giornata.

“Vita” significa lottare contro la violenza sessista, razzista, omotransfobica. Significa abbattere un regime delle frontiere che produce morte per terra e per mare.

Significa aver cura del futuro del pianeta e contrastare un sistema predatorio di sfruttamento delle risorse. Significa giustizia sociale, welfare universale, redistribuzione della ricchezza, lavori e salari dignitosi.

E significa diritto all’autodeterminazione, contro autocrati di lungo corso e nuovi leader reazionari che negano alle donne le libertà fondamentali.

Da qui viene la forza del grido «donna vita libertà», nato dall’attivismo femminista in Kurdistan, che ha assunto un significato globale dopo l’uccisione della ventiduenne iraniana Mahsa Amini.

In queste tre parole c’è il desiderio di una politica della “vita” che metta al centro il corpo femminile, non come strumento riproduttivo, non come oggetto del potere politico e religioso, ma come ancoraggio di una soggettività libera.

E c’è la consapevolezza che “libertà” resta una parola vuota se non è di tutte e tutti, se non include le donne e le minoranze sessuali, se non si sposa con l’uguaglianza radicandosi in condizioni giuste di esistenza.

Le donne, con la loro storia millenaria di esclusione, appaiono oggi, a tutte le latitudini, come il soggetto più capace di mantenere vivo il sentimento di un’alternativa possibile, e il bisogno di trasformare la realtà.

Perciò le loro lotte possono diventare l’elemento catalizzatore per una molteplicità di temi e di rivendicazioni.

Il potere che opprime le donne manifesta in modo speciale l’orrore per la vita e le sue manifestazioni multiformi.

Per questo “donna”, “vita”, “libertà”, declinate al singolare e al plurale, formano il vocabolario di una politica nuova, radicalmente avversa a ogni forma di dominio e alle sue trame di morte.