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di Paolo Di Stefano
Intellettuale «di psiche e di pancia». Il suo mistero in una rapsodia di ritratti
È più che ammirazione. Roberto Bazlen, detto Bobi, nato a Trieste nel 1902 e morto a Milano nel 1965, dopo aver vissuto a lungo a Roma, italiano e tedesco, amico di Saba, di Quarantotti Gambini, di Solmi, di Svevo e di Montale (al quale fa conoscere Svevo), è il caso più clamoroso di un uomo che quanto più in vita ha cercato di sottrarsi nell’anonimato, tanto più è finito sotto la luce delle memorie e ricostruzioni postume. Non una delle tante riscoperte occasionali d’annata, per Bazlen è maturato un autentico culto di lunga durata, che parte dal suo amico Luciano Foà, agente letterario (tra i più importanti d’Italia), poi segretario generale di Einaudi, infine fondatore di Adelphi con lo stesso Bazlen e con Roberto Olivetti. Bobi lo conobbe nel 1937. E fu un’amicizia per sempre, cioè per 25 anni («ero il suo braccio secolare», diceva Foà). Tutto questo e molto di più lo troviamo ora evocato in Bazleniana, una raccolta di scritti, ritratti, materiali curata da Anna Foà e Marco Sodano per le edizioni Acquario (pp. 243, euro 20). Con la premessa che Bazlen, che fu soprattutto consulente editoriale (la lista è lunga: Carocci, Rosa e Ballo, Cederna, Frassinelli, Astrolabio, Bocca, Guanda, Bompiani, Einaudi, Boringhieri), è una personalità pressoché inafferrabile. (Il romanzo d’esordio di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, ha per protagonista l’irrimediabile assenza del grande intellettuale che non pubblicò mai una riga).
Tra i materiali di Bazleniana c’è una serie di disegni onirici a matita, a china e acquerello che Bazlen ha fatto dal 1944 al 1950 per il suo diario psicoanalitico durante gli anni della terapia con Ernst Bernhard nel segno della immaginazione attiva junghiana («Passo quasi tutta l’ora a raccontargli come sono nati i disegni», annotò Bazlen il 2 settembre 1944). Si tratta di figurine stilizzate su scenari metafisici alla de Chirico, colmi di simboli religiosi, con crocifissioni, angeli, spicchi di luna, oggetti d’uso giganteschi, un grande occhio, un unicorno al guinzaglio di fronte a un diavoletto in erezione (il sesso è un ombrellino aperto), scorci marittimi con moli e battelli fumanti, eccetera.
I quattordici capitoli sono diversi per punti di vista, forme e stili, il che rende ancora più interessante questa «rapsodia». Un caleidoscopio con testimonianze di chi l’ha conosciuto e di chi l’ha studiato o immaginato. Il fotografo Gian Pietro Calasso, fratello dell’editore-scrittore Roberto, racconta il primo incontro nella casa romana di Bobi. Che gli si presentò con poche parole: «Leggo, traduco, faccio pubblicare e vivo». Il pranzo a base di uova di quaglia, sorseggiando whisky, in un’aria di povertà materiale e di snobismo aristocratico: «Bobi non possedeva nulla. Il che non gli impediva che portasse un paio di scarpe inglesi che costavano quanto lo stipendio di una famiglia di operai».
Ci sono contributi che ricostruiscono (attraverso le lettere e altri documenti) i rapporti con amici o le esperienze di lavoro. Sulla non pacifica collaborazione decennale con l’Einaudi si concentra Marco Belpoliti, che ricorda il binomio «la psiche e la pancia» con cui Italo Calvino fotografò il carattere del consulente: tra inconscio e corporalità in una combinazione che produce non solo ambivalenza ma anche ambiguità. Non si capisce come potessero andare d’accordo un editore di ispirazione marxista e uno junghiano spiritualista come Bobi Bazlen. Infatti le cose non andarono come si sperava quando nel 1959 si trattò di varare una «Collezione dell’Io» proposta da Bazlen, con il sostegno dell’amico Foà, una collana (tascabile) antropologica ma di un’antropologia poco scientifica e molto esistenziale (gli autori proposti andavano da Edmund Gosse a Simone de Beauvoir). Un altro mistero è come un anarchico asistematico quale fu Bazlen sia stato anche un grande costruttore di cataloghi editoriali, in gran parte liste infinite di «libri unici» che nell’insieme avrebbero trovato un senso e una coerenza di lunga durata solo in Adelphi, grazie alla determinazione illuminata di Foà e poi al talento combinatorio del giovane sodale Roberto Calasso.
Con Manuela La Ferla, cui si deve la prima monografia su Bazlen, ci inoltriamo sulle tracce di altre amicizie, sempre non facili: come quella che a partire dal ’25 intrattenne con Eusebius, ovvero con Montale, il quale avrebbe poi riconosciuto in quell’incontro «una finestra spalancata su un mondo nuovo». Il mondo nuovo era la scoperta di Svevo, di Kafka, di Musil, di Altenberg e di tanti altri autori ancora poco frequentati in Italia. La corrispondenza tra Roberto ed Eugenio mostra lo scambio tra vita e letteratura, con osservazioni specifiche (mai accomodanti), consigli, suggerimenti dell’ascoltatissimo «giudice» Bobi sul lavoro poetico in fieri dell’amico. Interessante il quadro psicologico che viene fuori dalla mappa epistolare dispiegata da La Ferla: «Istigatore di interi mondi, Bobi lasciava che la sua immensa cultura circolasse “senza pesare, tra una zuppa di fagioli e un fiasco di vino”, conviviale, spiritoso, asistematico, schivo…».
Sì, perché insieme all’intellettuale, al lettore indefesso, non bisogna mai dimenticare, appunto, l’uomo di psiche e di pancia. Quello che scrive lettere anche a Ljuba Blumenthal, la donna ucraina amata e messa in fuga dalle leggi razziali, con cui si scrissero quasi quotidianamente dal 1948 al 26 luglio 1965: una sorta di «diario della loro vita». In tal senso Bazleniana ci offre numerose testimonianze, come l’epistola a Foà in cui Ljuba, due mesi dopo la morte di Bobi, lo descriveva come un «uomo che poteva essere felice con tutto il cuore, o infelice, come nessun altro, che poteva godersi la vita immensamente in tutti i suoi aspetti materiali, che raccontava meravigliosi nonsense e si divertiva a provocarmi dicendo e facendo deliberatamente cose insensate».