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di Mauro Magatti
I risultati (convergenti) di diverse ricerche pubblicate nelle ultime settimane (Censis, Ipsos, Iref) ripropongono la questione del ceto medio.
Dopo l’annus horribilis del Covid, il Pil ha fatto registrare un forte rimbalzo che non si vedeva da decenni. Eppure, continuano a prevalere sentimenti di incertezza e paura. Ci sono la guerra in Ucraina, l’inflazione, il caro energia. Ma non solo. Il problema è anche che la ripresa non ha interessato tutti allo stesso modo: secondo l’Iref (che ha analizzato 1 milione di dichiarazioni dei redditi nel triennio 2019-2021), un terzo dei contribuenti ha avuto un aumento del reddito, mentre per i due terzi le entrate sono diminuite, anche se in misura lieve. C’è infine il 3,6% del panel (soprattutto donne e giovani) che ha subito una perdita di oltre il 35%. Sulla stessa linea, l’Ipsos parla di «dimensione economica ansimante delle famiglie italiane».
Significative sono anche le evidenze fornite ancora dall’Iref sulla spesa sanitaria privata (rilevata attraverso le detrazioni) che segnala una forbice tra ricchi e poveri. Ormai anche la salute — che nel passato il sistema sanitario nazionale riusciva a garantire come diritto universale — è un bene non accessibile per tutti allo stesso modo. Se si vogliono saltare le lunghissime (e inaccettabili) liste d’attesa degli ospedali pubblici, bisogna pagare.
In realtà, la percentuale di coloro che riescono a migliorare la propria condizione di vita lentamente si allarga. Ma nel contempo diventa più frequente anche lo scivolamento verso il basso. Di fronte a una società che diventa sempre più instabile, esigente e impegnativa — e che perciò richiede condizioni personali e di contesto adeguate — i destini si dividono: alcuni vanno avanti, molti stagnano, qualcuno perde terreno. Perché?
La spiegazione più efficace si trova forse nelle parole della regina rossa in Alice nel paese della meraviglie: «Qui devi correre più che puoi per restare nello stesso posto, ma se vuoi andare da qualche parte, devi correre almeno il doppio!». È infatti evidente che, in un mondo che diventa più complesso e veloce, la crescita del Pil non basta più: c’è una selezione anche nella ripresa. Non tutti sono nelle condizioni di cogliere le nuove opportunità che si vengono a creare.
Cresce così il numero di coloro che hanno paura di rimanere tagliati fuori. Di perdere quello che si ha. Di non farcela. Una percezione rafforzata dal fatto che in tante famiglie i giovani non hanno le stesse possibilità dei padri. L’ascensore sociale in Italia è bloccato da anni.
Tutto ciò congiura per la fine del ceto medio, categoria introdotta nella seconda metà del secolo scorso nel momento in cui la crescita economica era in grado di integrare gruppi sociali molto diversi tra loro nel circuito del benessere.
Ecco perché a crescere è la nostalgia (Censis) di un tempo in cui era ancora possibile sentirsi parte di un popolo, di una comunità politica che si prendeva cura dei propri cittadini creando le condizioni per la crescita personale e collettiva. Da tempo tutto questo non c’è più. Come si vede dalla forma che descrive la stratificazione sociale: non più a botte (con la parte centrale numericamente più consistente) ma a clessidra (stretta al centro e con le due estremità più larghe).
In questa situazione è molto più facile — ed elettoralmente pagante — offrire un sostegno economico volto a conservare un benessere più o meno fittizio — soprattutto laddove il contesto famigliare e sociale danno una mano — piuttosto che puntare a investire su ciò che possa permettere la sempre faticosa (spesso incerta e qualche volta persino improbabile) rigenerazione professionale e personale per tornare a saper vivere in una società altamente dinamica. Linea politica che nel corso degli anni ha finito col creare quella «società signorile di massa» (Ricolfi) che si è abituata a vivere al di sopra delle proprie possibilità attraverso l’indebitamento pubblico, lo sfruttamento dei più poveri (specie stranieri), l’evasione fiscale.
Un piano inclinato che anestetizza la società italiana permettendole di evitare di affrontare il nodo di fondo: rompere il patto perverso tra rendita e assistenzialismo, lavorando invece per creare le condizioni collettive perché i cittadini, le imprese, i territori possano effettivamente essere parte dei processi di una globalizzazione sempre più impegnativa. Al di là di ogni ideologia dell’efficienza che, quando affermata in modo unilaterale e classista, costituisce parte del problema.
La questione del ceto medio non è un tema esclusivamente economico. Ma ha a che fare con il fatto che la sfida dello stare al mondo — in un mondo tempestoso e caotico come quello contemporaneo — si può affrontare solo insieme, condividendo e realizzando progetti volti a creare un equilibrio sensato tra le esigenze dell’efficienza e quelle della qualità della vita, dell’innovazione e della formazione, della sostenibilità e della equità. Mai come in questi anni di forte transizione c’è bisogno di un nuovo progetto collettivo che permetta di superare quel profondo senso di abbandono che continua pericolosamente a circolare in tante parti della nostra società. Che poi significa trovare le forme contemporanee per coniugare le esigenze dell’economia con quelle della democrazia. L’efficienza con la solidarietà. La performance con il senso.
La mancanza di una risposta politica a queste domande riduce il potenziale economico, aumenta la frustrazione sociale, indebolisce le istituzioni democratiche.