fabio martini
Sostiene Rino Formica: «Oramai sono trascorsi cento giorni dalle elezioni e possiamo prenderne atto: mai si era visto un governo che nelle sue decisioni negasse del tutto gli impegni assunti durante la campagna elettorale, mai. Ed è un governo di rassegnati. È bastata una timida ribellione dei gestori degli impianti di carburante a fargli dire, vabbe’, rivediamo tutto». Classe 1927, barese, Rino Formica si è affacciato alla politica nel 1944 e da allora non si è più ritratto: più volte ministro socialista, in tutte le stagioni della Repubblica non ha mai fatto sconti a nessuno, né compagni né avversari, e lo stesso spirito anti-conformista affiora in questa intervista a La Stampa.
Partiamo dalle ultime ore: la presidente Meloni aveva rivendicato l’opportunità politica della scelta di non rinnovare lo “sconto” sulla benzina. Un passaggio anti-demagogico. Poi?
«Nel giro di 48 ore sono riusciti a sostenere il loro programma, poi lo hanno negato, poi lo hanno ripreso e alla fine, facendo la faccia feroce, si sono rassegnati davanti alla prima protesta. Tra l’altro una protesta corporativa. Il tutto è accaduto non sull’arco di una settimana o di giorni: la stella del ministro dell’Economia ha avuto l’abilità di negare e di rinnegarsi nel giro di poche ore».
Più in generale non pensa che decenni di governi indecisionisti abbiano portato il Paese allo stallo e possa essere utile un esecutivo che sciolga alcuni nodi, sia pure da destra, che a lei non piace?
«No. Il governo porterà il Paese ad una rassegnata acquiescenza verso decisioni sovranazionali: ogni giorno perderemo peso ed importanza. Saremo trascurati e l’unica speranza è che il trattamento sia compassionevole».
I primi tre mesi cosa le suggeriscono?
«Quotidianamente registriamo la negazione dell’impegno elettorale…».
Non è meglio così?
«Prima si diceva: lo vuole l’Europa. Ora dicono: non possiamo farlo perché l’Europa si distaccherebbe da noi».
Margini finanziari risicati: si rifaranno con le riforme politiche?
«Non sono in grado di farle. Perché sono riforme che non rispondono ad un disegno politico. Sono strumentalizzazioni. Prendiamo il presidenzialismo. Dicono: se la sinistra preferisse quello alla francese, siamo disponibili. Ma quel sistema ha dimostrato che spesso si determinano due maggioranze, una per il Presidente e una per il Parlamento. Se lo immagina in Italia? Avremmo una retrocessione rispetto alla stabilità ottenuta con le leggi elettorali maggioritarie. A loro interessa semplicemente che sia “riconosciuto” il capo. Ma servirebbe soltanto ad eliminare un punto di equilibrio come l’attuale Presidente della Repubblica».
Il consenso virtuale dei sondaggi per Meloni è alto: durerà?
«A medio termine non me la sentirei di escludere un governo con una parte della destra e una parte della sinistra. In Italia soluzioni di questo tipo non arrivano per un compromesso politico ma per necessità di sopravvivenza delle nomenclature. E d’altra parte credo che dopo 30 anni sia arrivato il momento di chiarire il non-detto che è alla base della nascita della Seconda Repubblica…».
Sarebbe a dire?
«La reciproca legittimazione tra destra e sinistra. Tra marzo e aprile 1993, col voto segreto su Craxi, l’uscita dei ministri del Pds dal governo Ciampi, l’assalto all’Hotel Raphael, le bandiere nere di Buontempo e quelle rosse di Occhetto si salda l’antisocialismo sicuramente presente nella società italiana. E si stringe un patto. La destra riconosce che il suo anticomunismo non si spinge sino a battersi perché i comunisti possano andare al governo e la sinistra, da una parte accetta che il fascismo abbia una legittimità costituzionale, dall’altra si accredita con il moderatismo sociale».
Ora è in campo il Pd: ce la farà a rimettersi in piedi?
«Un partito che si interroga se il segretario debba essere eletto dai militanti o dai cittadini che passano in quel momento davanti ad un computer, è un partito in deperimento».
L’emiliano Bonaccini può riportarlo almeno a galla?
«Bonaccini può contare sulla residua forza di una società integrata, l’Emilia-Romagna, l’unico esperimento di modello “democratico-totalitario”, un sistema nel quale i quadri sono intercambiabili: possono fare il sindaco, il capo della coop, il dirigente della Asl».
Libero campo ai Cinque stelle dell’avvocato Conte?
«I partiti populisti sono morti, ma in Italia il populismo è vivo. La stessa discussione nel Pd cos’è? Partito o movimento? Schlein è movimentismo e cioè aggregazione di forze occasionali e quotidianamente reclutate. Ma la sinistra esiste per cambiare sul serio: sul piano politico, sociale e sindacale, altrimenti non ha senso. Per ora non vedo grandi capacità di ripresa in una forza come il Pd, che è incapace di essere orgoglioso della propria memoria, lucido nella prospettiva, determinato nell’azione».