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Niccolò Carratelli
«Sono un anti-presidenzialista totale», dice Romano Prodi. L’ex premier ammette di guardare «con molta preoccupazione» il percorso avviato dal governo Meloni per arrivare alla riforma costituzionale in senso presidenzialista. Durante la presentazione del libro del sociologo ed ex ministro Carlo Trigilia, dedicato alle disuguaglianze e al declino della sinistra, il Professore si definisce, invece, «parlamentarista convinto, al punto che sono stato l’ultimo premier che si è fatto sfiduciare dal Parlamento». Nel dibattito, a cui partecipa anche un altro ex presidente del Consiglio (e della Corte costituzionale) come Giuliano Amato, ci si confronta su quale sistema elettorale consentirebbe alla sinistra di recuperare spazio di rappresentanza nelle fasce più deboli della popolazione. Amato e Trigilia puntano sul proporzionale, perché «il maggioritario costringe a cercare consensi al centro». Prodi sostiene invece che, di fronte alla frammentazione italiana, solo il maggioritario può dare un «orizzonte di stabilità, perché, se non hai 5 anni per lavorare, non fai le riforme».
A cominciare da quelle costituzionali, che richiedono un lungo iter parlamentare: il governo Meloni ce la farà a realizzare il presidenzialismo? «Io spero proprio di no – risponde Prodi parlando con La Stampa, al termine della presentazione – anche perché credo che in Italia un sistema del genere non funzionerebbe, non siamo in Francia». La richiesta di spiegazione supplementare viene accontentata. «Non abbiamo una struttura sociale come quella francese – aggiunge – anche se a me piace il loro sistema elettorale, con il doppio turno, mantenendo un ruolo forte del Parlamento». Ecco perché il presidenzialismo, secondo Prodi, è un rischio: «Non dobbiamo creare squilibri tra i poteri – avverte – la figura di garanzia e super partes del presidente della Repubblica non deve essere toccata». Diverso il discorso per quanto riguarda un possibile rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio, «perché si va sempre nella direzione di una maggiore stabilità dei governi e sarei d’accordo». Insomma, le parole d’ordine sono «stabilità ed equilibrio» e l’auspicio è che «alla fine non ci siano i margini per la riforma presidenzialista». Una linea quasi sovrapponibile a quella esposta dal Pd davanti alla ministra per le Riforme Elisabetta Casellati. Ma Prodi non risparmia una bacchettata ai dem e al loro percorso congressuale, che non lo sta scaldando, per usare un eufemismo. Ha seguito in tv il confronto tra i quattro candidati alla segreteria, «piuttosto timido, nemmeno una proposta per creare dibattito e coinvolgere le persone». A sentire il Professore, non è così difficile: «Basterebbe buttare giù quattro cose tranquille, dette chiare, e la sinistra resuscita – spiega – C’è un’opinione pubblica totalmente disamorata. Se non c’è qualcuno che dice “facciamo piazza pulita”, il Pd non si rialza». Duro, ma non quanto Amato, secondo il quale «il Pd non è più un partito, è un gruppo dirigente», incapace di «costruire una politica», perché a farla sono «tanti piccoli uomini che parlano fra loro di piccole cose». Ad ascoltare, seduti in prima fila e ammutoliti, ci sono il vicesegretario Pd Peppe Provenzano e l’ex ministro Roberto Speranza, protagonista del “ricongiungimento” con Articolo 1. Allora Prodi prova a trasformare gli schiaffi in scappellotti: «La sinistra ha perso sensibilità, non riesce a risultare credibile – aggiunge – ma, di fronte a questa forte ingiustizia sociale, c’è un bisogno enorme di sinistra e il Pd resta un punto di riferimento fondamentale».