ALESSANDRO BARBERA
L’estate 2026 è dietro l’angolo. L’Italia, complice una burocrazia lentissima, rischia di arrivare in ritardo su molti dei progetti più importanti del piano nazionale delle riforme: strade, ferrovie, infrastrutture tecnologiche. Come uscirne? Raffaele Fitto, il ministro al quale Giorgia Meloni ha affidato tutti i poteri sulla gestione dei fondi europei, sta conducendo una trattativa delicatissima per ottenere una deroga ai tempi fin qui fissati dalla Commissione europea. Da che il governo si è insediato, il responsabile degli Affari comunitari non ha concesso nemmeno un’intervista. «Farò parlare i fatti», dice spesso a chi lo interpella. Va e viene da Bruxelles nel tentativo di ottenere tempi più lunghi per completare gli investimenti, soprattutto quelli destinati al Sud. La ricognizione fatta fin qui dimostra che il problema più serio non è rispettare i tempi delle riforme semestre per semestre (su cui la Commissione si sta mostrando flessibile), ma quelli implacabili dei cantieri.
Secondo le stime che circolano nei palazzi, il governo Draghi è riuscito a spendere meno della metà dei 40 miliardi fin qui ottenuti. Fitto conosce il problema: quando nel 2008 diventò ministro delle Regioni del primo governo Berlusconi, l’Italia spendeva un decimo delle risorse. Gli ultimi monitoraggi dicono che oggi arriviamo alla metà: ancora poco per un Paese che fra Pnnr e risorse ordinarie ha a disposizione, di qui al 2027, 300 miliardi di euro. E così, d’accordo con Meloni, ha tratteggiato una strategia che si può riassumere così: spostare in avanti parte degli investimenti del Pnrr verso i fondi di coesione destinati alle Regioni meridionali, i cui tempi di realizzazione si spingono fino al 2029. Ne è prova un passaggio rimasto inosservato di un discorso fatto due giorni fa davanti al congresso della Cgil pugliese. «Il governo vuole avere una visione complessiva degli interventi da attuare e capire i diversi tempi di rendicontazione delle risorse. Il Pnrr si completa entro il 2026, la programmazione sulla coesione nel 2029». Dietro alla battuta c’è l’obiettivo della trattativa aperta con Bruxelles, ovvero rivedere l’intero cronoprogramma del Piano, spostando alcuni investimenti dal Pnrr (decisi nei mesi bui della pandemia) a quelli ordinari del periodo 2021-2027.
Il diavolo si nasconde nei dettagli: se il Piano nazionale delle riforme deve essere completato entro agosto 2026, la programmazione per il Sud permette la rendicontazione delle spese fino a dicembre 2029. Detta ancora più semplicemente: il governo Meloni sta chiedendo di ridiscutere l’intera pianificazione dei fondi, e non solo di quelli in scadenza. Nel periodo dal 2014 al 2020 l’Italia è riuscita a spendere meno di 40 degli 80 miliardi a disposizione.
La soluzione tratteggiata da Fitto negli incontri con la Commissione ha due ulteriori obiettivi. Il primo: recuperare parte dei fondi strutturali «scaduti». Il secondo: una volta ottenuta la riallocazione di alcuni progetti al 2029, riassegnare i fondi Pnrr inutilizzati per altre spese, ad esempio in aiuti di Stato a settori industriali in crisi come l’Ilva. A corollario di questa tela di Penelope c’è un problema ulteriore, anch’esso da concordare con l’Unione. Nella bozza del decreto di semplificazioni che il governo varerà ai primi di febbraio per accelerare i cantieri, mancano del tutto gli articoli dedicati alla revisione dei poteri attuativi. La decisione di concentrarli attorno al dipartimento di Fitto porta con sé problemi organizzativi. Oggi le strutture tecniche centrali sono tre, la più importante delle quali al ministero del Tesoro. Meloni e Fitto vogliono rivedere tutta l’architettura, ma non possono farlo senza il sì di Bruxelles. Nel frattempo Fitto dovrà sostituire anche il capo del dipartimento degli Affari europei Fabrizia Lapecorella, nominata vicesegretario dell’Ocse a Parigi. —
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