Torna in una nuova edizione il saggio dello studioso di Princeton che ha indagato più di altri il tema e la sua evoluzione nella politica di oggi Senza tralasciare gli effetti della pandemia e il caso italiano
Poiché gli opinionisti e persino molti politici ci dicono continuamente che viviamo nell’“era del populismo”, si è affermata la tendenza ad applicare la parola “populismo” a fenomeni di ogni tipo, per i quali disponiamo in realtà di concetti molto più precisi, come nazionalismo, razzismo o protezionismo. Questo ha fatto sì che il populismo sembrasse onnipervasivo e, con la diminuzione della nostra capacità di distinguere, è diventato più difficile comprendere le reali dinamiche politiche del nostro tempo. Quali sono dunque queste dinamiche? Un modo comune per cercare di coglierle è stato quello di osservare un’“onda” populista che avanza o si ritira. Un punto culminante per questo tipo di commenti è stata la primavera del 2020, quando molti osservatori hanno ipotizzato che la pandemia avrebbe “ucciso” il populismo. Tale idea si basava su numerosi presupposti errati.
Uno era la nozione stessa di onda (sia essa in avanzamento o in ritirata). Questa immagine si è rivelata profondamente problematica per due motivi: in primo luogo è empiricamente fuorviante. Sostenere che ci sia un’“onda” suggerisce che sia in atto un processo quasi naturale, per definizione inarrestabile (dopo tutto, chi può davvero fermare un’onda?…). Il che induce a sopravvalutare il potere del populismo, rendendoci ciechi di fronte alle decisioni di quegli attori specifici che portano al potere i politici populisti. Tutto ciò porta alla seconda conseguenza perniciosa della metafora dell’onda: l’aver approfondito nel centrodestra e tra i conservatori quello che si può solo definire disfattismo politico. Se infatti il populismo è un’onda inarrestabile, che cosa possono fare per fermarlo? Niente. Ma, nelle loro menti, potrebbero ancora essere in grado di adattarsi. Da qui l’abbandono di quello che in alcuni Paesi ha rappresentato per molti anni un cordone sanitario. In alcuni casi stiamo assistendo alla collaborazione di fatto con i populisti dell’estrema destra: le elezioni svedesi del 2022 ne sono un esempio particolarmente eclatante.
Eppure, l’immagine dell’onda ha resistito, e con essa la convinzione che la pandemia l’avrebbe fatta recedere. L’aspettativa si basava perlopiù sull’idea che il populismo sarebbe caratterizzato da posizioni semplicistiche a livello politico e che una sfida complessa come l’emergenza sanitaria legata al Covid-19 avrebbe rivelato l’incompetenza di base dei populisti. Certamente ci sono stati alcuni fallimenti spettacolari, Trump e Bolsonaro in primis. Molti altri populisti hanno preso sul serio la sfida; contrariamente a quanto talvolta si sostiene — ovvero che questi attori tendano a creare e prolungare artificiosamente crisi che essi stessi “mettono in scena” – , molti populisti al governo volevano che la pandemia finisse davvero il prima possibile (il caso dei populisti all’opposizione è un po’ più complicato). Allora, perché Trump e Bolsonaro sono stati un caso anomalo?
Uno dei motivi è che i sistemi presidenziali hanno permesso loro di impegnarsi in qualcosa che, per quanto paradossale, spesso sembraessere un attributo dei populisti. Intendo dire che i populisti, come sovente si sente dire, sono “contro le élite”. Ma, una volta acquisito il potere, sono essi stessi “le élite”. Per continuare ad agire e, in particolare, a parlare come populisti, dovrebbero dunque in qualche modo governare contro sé stessi; da qui anche l’aspettativa che, a meno che non siano completamente irrazionali, i populisti al potere diventino moderati e cessino effettivamente di essere populisti. Questa apparente contraddizione — governare contro sé stessi — potrebbe tuttavia diventare una realtà, anche in qualche modo sostenibile, se, come un presidente, ci si trova di fronte a una serie di attori di diversa estrazione politica ma dotati anch’essi di potere decisionale. Si pensi a una legislatura controllata da un partito diverso da quello del presidente. Questa logica si aggrava nei sistemi federali, in cui i governatori influenti possono provenire dal partito di opposizione. Questo è più o meno ciò che è successo con Trump e Bolsonaro: si sono presentati come l’alternativa libertaria agli attori che hanno preso sul serio lapandemia; e, naturalmente, si sono anche presentati come i campioni di ciò che i populisti spesso chiamano “la gente vera”. Certo, entrambi alla fine hanno pagato un prezzo alle urne e non sono stati rieletti; ecco che la narrativa secondo cui «il populismo fallirà sempre da solo» è stata ancora una volta rafforzata. Ma è fondamentale ricordare che Trump e Bolsonaro sono stati dei casi anomali e non i più emblematici di una logica populista generale.
E l’Italia? Un luogo comune vuole che l’Italia sia una sorta di laboratorio politico: ciò che accade lì, finirà per accadere in molte altre democrazie. Questo tipo di narrativa sembrerebbe essere confermata da una figura come Berlusconi, anticipatore del populismo di destra che ha trionfato in altri luoghi; la sua carriera può anche essere considerata un’anticipazione di Trump per certi aspetti. Il Movimento 5 Stelle, a sua volta, può essere visto come il pioniere di partiti più o meno populisti che operano attraverso piattaforme digitali, con promesse più o meno plausibili di maggiore partecipazione per la cosiddetta gente comune (nel caso dei 5 Stelle è ovvio che tale promessa non è stata realmente mantenuta, essendo diventato il Movimento sempre più simile ai partiti politici tradizionali). Se c’è una lezione da trarre dagli sviluppi più recenti, è forse che la deriva a destra di un Paese può sviluppare una propria dinamica: Berlusconi è stato sostenuto dai cristiano-democratici più tradizionali, ma ha anche rotto il tabù di invitare l’estrema destra al governo. Una volta che un tabù è stato infranto — e una volta che certe dichiarazioni di attori di estrema destra sono diventate legittime, nel momento stesso in cui gli attori di centro-destra le adottano — questi sviluppi semplicemente non si possono annullare. Ciò non significa che il trionfo dell’estrema destra sia nel lungo periodo inevitabile; il punto, piuttosto, è che le decisioni degli attori non di estrema destra contano molto e che da un movimento di destra non si può uscire quando si vuole, né tantomeno è possibile invertirne la direzione di marcia.