NEW YORKEra nata intorno ad un tavolo da poker. E forse questa circostanza avrebbe dovuto mettere in guardia i suoi clienti, sul destino segnato della Silicon Valley Bank. Epperò per quarant’anni era stata l’angelo custode dei visionari che sognavano di inventare il nostro futuro digitale, e avevano solo bisogno di qualcuno che credesse alle loro fantasie, rischiando un po’ di soldi per farle diventare realtà.
Era il 1983, come aveva raccontato il cofondatore Robert Medaris ad una conferenza organizzata dal Computer History Museum una decina di anni fa, e l’avvento di Ronald Reagan alla guida degli Stati Uniti stava cambiando il panorama nazionale: «Aveva allentato tutte le regole, anche nel settore bancario, e questo mi aveva fatto venire l’idea che ci fosse spazio per nuove iniziative». Robert era originario del Kansas, giocava a basket, e quasi per miracolo era stato ammesso all’università di Stanford: «Forse perché volevano favorire la diversità geografica, e non avevano neppure idea di dove fosse il Kansas». Dopo la laurea era passato alla Harvard Business School, aveva lavorato un po’ nel settore edile in Arizona, ma alla fine era tornato in California ad insegnare. Con i suoi amici Bill Biggerstaff (nomen omen), Roger Smith, Dave Elliott, Star Colby e Burton Blackwell passavano il tempo nuotando in piscina o giocando a tennis nella cittadina di Atherton. «Una volta Burton venne da me e mi disse: lo sai cosa dovremmo fare? Fondare un gruppo di giocatori di poker.
Così, solo amici, tanto per trovarci.
Cominciammo a giocare tutti i venerdì sera, ma era più che altro una scusa per discutere le nostre attività e cosa succedeva nelmondo». Da cosa nasce cosa e una sera, «mentre tornavamo nella macchina di Elliott, tirai fuori l’argomento. Dissi a Dave che io e Bill stavamo pensando di fondare una banca, ma in realtà volevo sollecitarlo ad investire nel progetto. Che ci crediate o no, tutti gli amici del poker decisero di metterci un po’ di soldi. Davvero interessante».
L’idea visionaria di Robert e Bill era che nella Silicon Valley bollivanoidee straordinarie, ma avevano bisogno di un po’ di fiducia per fiorire e fruttare miliardi. Fiducia in questo caso significava soldi, per avviare attività promettenti sulla carta, prima che generassero anche un solo dollaro di ricavi. Il primo ufficio era stato aperto lungo la North First Street di San Josè, seguito poi dalla sede di Palo Alto.
La strategia era mettere gli investitori di venture capital in contatto con gli imprenditori, peraiutarli a lanciare le loro start up.
Servizi basilari, tipo l’apertura di depositi e poco altro. Se poi le start up funzionavano e si allargavano, necessariamente dovevano rivolgersi alle grandi banche tradizionali per crescere, e quindi la missione di Svb finiva. «La maggior parte delle istituzioni finanziarie commerciali — ha raccontato al San Francisco Gate Pauline Lo Alker, ceo di Network Peripherals — non avrebbero mai dato credito acompagnie come la nostra, nei giorni in cui potevamo offrire solo promesse. Ma la Silicon Valley Bank respirava la cultura delle start up e quindi ci capiva». Aveva prestato i finanziamenti iniziali a Pauline, che poco dopo aveva quotato in borsa la sua azienda, raggiungendo subito un valore di mercato di 200 milioni.
Tra i primi clienti, tanto per capirsi, c’erano Cisco Systems e Bay Networks. Perché non c’era partita, tra lo stile rilassato della banca nata nella cultura della Silicon Valley, e i rivali che venivano da Wall Street con le camice a righe e i cravattoni.
Di questo passo Svb era cresciuta rapidamente, insieme ai propri assistiti, ma sempre facendo del pericolo il suo mestiere. Aveva perso 2,2 milioni di dollari nel 1992, per il crollo del mercato edilizio in California, ma si era risollevata assumendo John Dean come nuovo ceo. Nel 1995 aveva aperto la sede a Santa Clara, e poi Atlanta, Delaware, Florida. Nel 2001 aveva perso il 50% del valore del suo titolo, quando era scoppiata la bolla delle dot-com, ma era sopravvissuta ancora una volta, allargandosi al settore del private banking. Quindi si era mossa all’estero, aprendo sedi in India, Londra, Israele e Cina, sempre con l’idea di aiutare il bacino locale delle start up, ripetendo ovunque il modello California. La crisi del 2008 l’aveva colpita come tutti, ricevendo 235 milioni di aiuto dal Troubled Asset Relief Program, ma ancora una volta era resuscitata, sotto la guida del ceo Greg Becker, arrivando a quasi 10.000 dipendenti, 211 miliardi di asset, e un quarto del mercato della Silicon Valley. Fino all’errore fatale di non vedere il cigno nero del covid, l’inflazione, e perdere la partita a poker con la Fed sui tassi.