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di Vanni Santoni
Per tutta la vita, Hermann Broch patì il confronto coi più fortunati colleghi Thomas Mann e Robert Musil, sentendosi, a seconda delle proprie ciclotimie, ora incompreso, ora inadeguato. Se oggi è pacifico considerare i suoi due maggiori romanzi, I sonnambuli e La morte di Virgilio, come capolavori, è pur vero che la sorte di Broch non è cambiata molto dopo la morte sua e di coloro che considerava rivali (non valeva il contrario: Mann e Musil lo calcolavano fino a un certo punto).
Tra i critici, viene collocato sopra ai due giganti solo da chi vuol distinguersi per originalità, o da chi pone le innovazioni strutturali al vertice dei parametri di valutazione di un romanzo; nella percezione dei lettori avveduti, Hermann Broch resta comunque un gradino sotto agli autori dei Buddenbrook e dell’Uomo senza qualità; in quella del lettore di massa, oggi come ieri, è ancora un nome semisconosciuto.
Chissà allora se l’effetto Adelphi, quel processo di valorizzazione quasi magico, ma in realtà frutto di rigorosa aderenza a un’idea di catalogo, che ha portato allo stato di culto autori prima poco considerati, riuscirà a far infine intercettare il supremo romanzo di Broch — che è in fondo I sonnambuli, più del testamentario e magniloquente La morte di Virgilio — a tutti i lettori italiani, e non solo a chi scrive o s’interessa di studi letterari.
Una scommessa che resta difficile, e non solo perché tra la riedizione del primo volume, 1888. Pasenow o il romanticismo, e quella del secondo, 1903. Esch o l’anarchia, sono passati tre anni, col terzo volume ancora lontano, ma anche perché, in fondo, Broch non ha mai incontrato troppo favore presso il lettore di massa. Non era avvenuto con l’edizione Einaudi nel 1960, che usciva con un blurb di Aldous Huxley che parlava di «libro di primissima importanza», né con le sue riedizioni; men che meno con quella Mimesis del 2010 (lì a cantare le lodi di Broch c’erano Kundera e Fuentes); ma anche al momento stesso dell’uscita del libro, nel 1930, il suo editore, Daniel Brody della Rhein Verlag di Zurigo, disse a Broch che I sonnambuli avrebbe alimentato la sua fama letteraria più che il suo conto in banca.
Ma perché questo romanzo, fin dall’inizio della sua storia e nonostante il suo status di indiscutibile capolavoro, non è mai «passato» fino in fondo presso il grande pubblico? La risposta ben emerge dalla lettura del secondo volume, Esch o l’anarchia, più che dal primo, Pasenow o il romanticismo (chi volesse invece capire la ragione per cui I sonnambuli resta un indiscutibile capolavoro, dovrà aspettare il terzo, dove si tirano le fila delle varie vicende). Il fatto è che i personaggi dei Sonnambuli, nessuno escluso, sono persone straordinariamente mediocri, spesso meschine e sempre sgradevoli. Il lettore non può tifare per nessuno, nei Sonnambuli, né vi sono personaggi così negativi da ispirare simpatia o almeno causare un sussulto. No. La volontà di Broch è precipitare tutti — protagonisti, comprimari, lettori, sé stesso — in un clima di avvilente pochezza e insulsaggine. L’obiettivo è raccontare la dolorosa transizione tra due epoche, la complessità di tale transizione – del resto le tre Germanie del 1888, del 1903 e del 1918, dove è ambientato il terzo volume, Huguenau o il realismo, sono mondi assai diversi tra loro –, e anche l’inutilità di tanta complessità: Broch pare quasi sentire dentro di sé che il risultato finale di mille rovelli sull’identità germanica e sul senso della storia saranno comunque la guerra totale e i campi di sterminio.
Se a una simile, fosca volontà narrativa si aggiunge il desiderio di Broch di essere sì narratore ma non burattinaio, analista ma non osservatore esterno (e quindi di essere dentro al romanzo, di non uscirne assolto), ecco che la sgradevolezza, l’incomprensione, la piccineria e il senso d’inadeguatezza diventano elementi programmatici di poetica. Una scelta che non può risultare troppo gradita a un pubblico di massa che, oggi come allora, da un romanzo cerca anche coinvolgimento, quando non intrattenimento.
Eccoci così a fare la sgradevole conoscenza del bieco impiegato August Esch, un individuo pavido e frustrato, schiacciato da sogni più grandi di lui e incapace di raccogliere quel poco che la vita gli offre, forse per non venire a patti col fatto che, se l’offerta è così misera, anche lui non dev’essere granché. L’anarchia c’entra fino a un certo punto (ma è pur vero che anche il Pasenow del primo volume non era un romantico, al massimo una sua caricatura; né l’amorale Huguenau, in arrivo col terzo, è un realista, quanto piuttosto un nichilista); in fondo, anche l’unico anarchico del libro, l’amico Geyring, non è che un socialdemocratico, e la ribellione a cui arriva un’anima piccola come quella di Esch assomiglia a quella di Travis Bickle, il Taxi Driver di Robert De Niro (e Martin Scorsese): vagheggiare, senza riuscirci, l’uccisione di un esponente di spicco di quel «sistema» che gli risulta, in fondo, incomprensibile. C’è, però, in questo libro di transizione e cesura all’interno di un’opera che racconta a sua volta una transizione e una cesura (tra due epoche), la consapevolezza della fine di un ordine, di un sistema di valori, di ogni punto di riferimento predefinito a cui appoggiarsi.
Che fine farà Esch? Chi non ha letto I sonnambuli nelle precedenti edizioni, lo scoprirà quando uscirà il terzo volume, in cui le tre figure al centro della polifonia brochiana, che fin qui procedono per binari indipendenti e lontani l’uno dall’altro, entreranno in un’attesa, e sapientemente ritardata, rotta di collisione. Sarà occasione anche per capire, al cospetto delle decisive innovazioni strutturali che solo al terzo volume diventano visibili in prospettiva, perché questo romanzo, inteso come dev’essere inteso, ovvero come libro unico, sia uno dei massimi del Novecento.
L’intento di Broch, quello di una totalità polistorica, viene esplicitato infatti al volume finale dei Sonnambuli, quando si svela anche l’assenza di compromessi con cui ha lavorato l’autore: nessuna volontà di compiacere chi legge, mai. È per questo che, prima di arrivare al «salto di livello» nell’arte romanzesca che si esperisce a trittico terminato, il lettore deve continuare a immergersi nella più meschina mediocrità e nel più frustrante senso di impotenza, che raggiungono del resto il loro picco con Esch o l’anarchia: sono gli ingredienti che preparano il campo a un’epoca buia, proprio come avvenne in Germania con l’arrivo del nazismo, inteso anzitutto come volontà di riproposizione artificiosa di valori reazionari, destinata quindi a essere solo imposizione di disvalori.
Si tratta, allora, di un romanzo senza speranza, senza vie di fuga per i suoi personaggi o per il lettore? Certo, avrebbe detto Broch: non avete visto come sono andate, poi, le cose?